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BlacKkKlansman di Spike Lee. La recensione

BlacKkKlansman BlacKkKlansman, una scena del film di Spike Lee (2018)

BlacKkKlansmanBlacKkKlansman non è una commedia, ma è divertente. Non è un film horror, ma fa paura. Non è ambientato ai giorni d’oggi, ma è tremendamente attuale

Nel 1972 un giovane ragazzo afro-americano entra nel dipartimento della bianchissima polizia di Colorado Springs. In un’epoca fatta di grida arrabbiate e di segregazioni razziali, Ron Stallworth (John David Washington) ha il suo sogno: essere il primo agente di polizia nero in città.

Dopo una rapida gavetta d’archivio, Stallworth viene assegnato al reparto di intelligence, dove di intelligence sembra esserci ben poco. Un po’ per gioco, un po’ per determinazione Ron si ritrova all’inizio del suo primo caso, quando con il coraggio e la scarsa furbizia del novellino risponde a un annuncio pubblicato sul quotidiano locale dal Ku Klux Klan.

Già la prima conversazione con il bianco suprematista, che diventerà sua guida e mentore, è borderline tra umorismo e assurdo: un afro-americano che “con la voce da bianco” inneggia alla supremazia bianca con un violento razzista, estremamente entusiasta.

Ma è chiaro a tutti che per fregare il Ku Klux Klan dall’interno ci vuole un piano di fino. Ron ha bisogno di un alter ego che ci metta letteralmente la faccia e questo alter ego non può che essere Flip Zimmerman, un ebreo bianco interpretato da quel marcantonio di Adam Driver (Silence, Paterson, La truffa dei Logan).

BlacKkKlansman
BlacKkKlansman, una scena del film di Spike Lee (2018)

Tutto fa credere di essere all’inizio di una barzelletta, un nero e un ebreo bianco che la fanno al Ku Klux Klan. E invece BlacKkKlansman è tratto da “una fottuta storia vera” (e ve ne abbiamo parlato qui).

La sceneggiatura scritta da Spike Lee è basata sull’autobiografia di Ron Stallworth che si presta quale canovaccio perfetto per tracciare parallelismi continui tra gli Stati Uniti di ieri e gli Stati Uniti di oggi, in una miscela di satira politica d’epoca e attualissima.

Ma la cosa più notevole è quanto Lee sia in grado di bilanciare i cambiamenti tonali, provocando sia risate che sussulti d’orrore, in un film basato tutto sulla dualità: realtà e finzione, passato e presente. E questa dualità la si ritrova anche e soprattutto nel nostro eroe che non è nessuno senza il suo alter ego.

I due attori, così come i due personaggi che interpretano, raggiungono l’equilibrio perfetto insieme sia in pellicola che in sceneggiatura. Uno è un ragazzo afro americano diviso tra il suo sogno di essere un “porco” in divisa e l’interesse per i movimenti black power, l’altro invece è ebreo di nascita – ma non di convinzione – che si ritrova a inneggiare costantemente l’olocausto per non farsi sparare in testa. Questo lavoro di squadra rimane centrale per tutta la durata del film.

Tuttavia ciò che fa più ridere in assoluto sono gli scambi telefonici tra il figlio di Denzel e David Duke, noto suprematista bianco, ex rappresentante della Louisiana, ed ex-Grande Mago del KKK, in particolare durante l’epoca in cui si svolge il film. Interpretato da Topher Grace, Duke diventa qualcosa di simile ad un cartone animato, dipinto come un gigione facilmente raggirabile a capo di un gruppo di inutili redkens la cui ridicola ossessione per la supremazia bianca li trascina ai confini dell’imbarazzo puro.

Molti film nel passato hanno utilizzato il Klan come mezzo ed espediente comico. Penso a Fratello Dove sei? dei fratelli Coen o alla celebre scena di Django Unchained di Tarantino con i loro cappucci cuciti male. Tra questi Spike Lee si inserisce benissimo, e proprio come gli altri dipinge e parla di un’epoca lontana dove però quell’ideologia è tragicamente attuale.

Alla fine di BlacKkKlansman il lieto fine trionfa: il piano dei malvagi viene coraggiosamente sventato, David Duke viene umiliato e con lui anche il poliziotto razzista ottiene quello che si merita. Una fantasia cinematografica, sì, ma che a volte fa pure piacere.BlacKkKlansmanMa è proprio quando pensiamo di tornarcene a casa belli e beati che Spike Lee ci sbatte in faccia la dura realtà. In un continuum cinematografico dai tempi scanditi alla perfezione, giustappone l’odio razziale di un’epoca passata con le notizie scandalose di Charlottesville (2017) condito con il famoso intervento di Trump agli attacchi neonazisti: “la colpa è di entrambe le parti”.

D’altra parte quarantacinque anni fa sarebbe stato del tutto improbabile che il popolo americano potesse eleggere un presidente che incarna apertamente gli ideali del suprematismo bianco con tale noncuranza. E nella pellicola Lee strizza l’occhio al suo pubblico, dimostrando in una gag come l’ascesa di Trump non sia uscita proprio dal nulla.

BlacKkKlansman ci ricorda che l’assurdo, l’inimmaginabile è possibile, ed è pure pericoloso. Ma ciò che mi porto casa con più soddisfazione è rivedere il vecchio caro Spike Lee, come lo conosciamo dai tempi di Fa la cosa giusta: il cineasta ribelle che ci dà dentro con la provocazione, e ci riesce da Dio.

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