Siamo al terzo atto del ciclo delle Project Room alla Fondazione Pomodoro, Milano. Dal 21 novembre al 21 dicembre La Stanza di Proust ideata da Flavio Arensi ospita, come ultimo artista della serie, Roberto Fanari. Lo “scultore leggero” ha tralasciato momentaneamente i manichini in ferro a lui cari per creare una stanza decostruendone un’altra.
Come una diffrazione visiva le sale spogliate della Fondazione Pomodoro si alternano a quelle di una galleria palatina, di un salone di una corte seicentesca. Immagini frammentate si scompongono e sovrappongono stridendo tra loro, al suono di una melodia (in parte campionata in fase di allestimento) realizzata da Francesco Fugazza. Entrando nella stanza, meglio se soli, accettiamo il confronto con uno spazio onirico ed imprecisato, quasi fosse ancora in divenire, non completamente assestato. Un emergere sincopato di dimensioni opposte che si incrociano.
L’estrema finezza e decorazione si asciuga all’incontro con la geometria liscia dello spazio espositivo. Il risultato è architettato dalle mani di Fanari fino a comporre una galerie des glaces inedita. L’allestimento in ferro è depurato da ogni orpello decorativo e si propaga in equilibrio sottile per i due bracci della sala, confluendo nella parete di fondo e allacciandosi in un arazzo quasi disegnato. E seguendo una poetica dei materiali non indifferente all’insegnamento dell’Arte Povera, di disegno forse si può parlare. Se più volte abbiamo notato un farsi della pittura scultura – Fontana, Burri, Castellani, per citare degli esempi – in Fanari osserviamo la scultura tornare pittura, disegno, segno. Il ferro è leggero e flessibile, manipolabile fino a delineare costruzioni estremamente precise. Il suo filo lascia tracce nello spazio come grafite sul foglio. Allude alla suggestione di un progetto in cantiere, di un lavoro che va condensandosi, ma che conserva il fascino fragile della provvisorietà, dell’incompiutezza.
A completare lo spazio mentale di Fanari è il visitatore, ospite atteso che trova ad accoglierlo due file parallele di specchi, unico abbellimento delle pareti laterali. Ma lontani dall’essere uno sterile adornamento, gli specchi interagiscono con il visitatore moltiplicandone l’immagine all’infinito, gettandolo in una riflessione auto-conoscitiva. Come in Uno, nessuno, centomila l’individuo è all’improvviso assorbito nel contrasto tra unità e molteplicità, tra assoluta conoscenza di sé e dubbio eterno nei confronti della propria esistenza.
“Stare davanti a uno specchio significa cercare un punto di mediazione trai diversi livelli della psiche, recependo un nuovo equilibrio tra le regole imposte e personalità profonda. Non vi è via di scampo da se stessi, e meno appigli vengono offerti, meno indugi si attivano per sottrarsi all’autoanalisi, o forse auto-conoscenza”
Flavio Arensi, Curatore della mostra