«Van Dyck rende slanciate le figure che Rubens faceva troppo tozze; vi mette meno muscoli, meno rilievo, meno ossa e sangue»: questo il giudizio che di Antoon Van Dyck forniva, nel 1877, Eugène Fromentin nel suo Les Maîtres d’autrefois, saggio di vasta fortuna e, per molti d’allora, sorta di iniziazione alla pittura belga e olandese.
Sappiamo appunto che dalla bottega della sua prima formazione, quella di Hendrick Van Balen, Van Dick, che già dipingeva in proprio, passò presto a frequentare l’atelier di Pieter Paul Rubens: e proprio un’aggraziata fusione tra la formazione rubensiana e gli influssi italiani (di Raffaello e Tiziano soprattutto), sempre ampiamente rilevabili, caratterizza nell’insieme la sua pittura. Nei decenni della sua attività, tra viaggi e committenze elevatissime, Van Dyck avrebbe saputo affermarsi in seno ad alcune tra le maggiori corti europee, i cui membri sopravvivono nei suoi ritratti: la mostra ora in corso alla Galleria Sabauda di Torino è appunto dichiaratamente organizzata intorno alla dimensione di Van Dyck quale pittore di corte, con un focus selettivo ma centrato.
Appare interessante, all’inizio del percorso espositivo, la scelta di mostrare un prezioso dettaglio iconografico del legame tra Rubens e Van Dyck, sullo sfondo dell’ovvio rapporto stilistico: ci riferiamo qui al ritorno, nel ritratto di Caterina Balbi Durazzo (Museo di Palazzo Reale, Genova, c. 1624), di una fontana della collezione Farnese già raffigurata nella Susanna e i Vecchioni di Rubens (Torino, Galleria Sabauda, 1618). Una presenza di tutt’altro segno, però: se nel quadro di Rubens l’Erote alato che si tuffa sul ketos afferrandolo con forza ci sembra speculare ai Vecchi che abbrancano Susanna, nel ritratto di Van Dick la fontana ritorna anzitutto come elemento di prestigio nobiliare e spirituale: su di essa Caterina appoggia, delicatamente, la mano. La compostezza espressiva del ritrattista apprezzato per la resa insieme raffinata e solenne dei suoi soggetti ritorna con evidenza nel ritratto di Geronima Sala Brignole con la figlia Aurelia (Genova, Musei di Strada Nuova, 1627) e in quello di Elena Grimaldi Cattaneo (Washington, National Gallery, 1623-24) sotto il rosso parasole retto dal paggio moro, sullo sfondo di colonne corinzie. Del primo soggiorno genovese è ancora memoria il doppio ritratto dei fratelli pittori Lucas e Cornelis de Wael (Roma, Musei Capitolini,1627), che nel 1621 avevano ospitato Van Dyck, sul modello illustre dell’Autoritratto con un amico di Raffaello; mentre va verosimilmente ascritto al periodo romano il Ritratto del cardinale Guido Bentivoglio (Firenze, Uffizi, 1622-23), per virtuosismo tecnico fra i maggiori in assoluto della sua produzione.
Quando il maestro ritornò ad Anversa, nel 1627, concepì il progetto di realizzare una vasta serie di incisioni con le effigi degli uomini illustri del suo tempo: principi, uomini d’arme, filosofi, letterati, artisti, dame. Si tratta di una ‘galleria’, della quale è visibile in mostra una rappresentativa selezione, che aggiorna il gusto antico e rinascimentale dei Viri illustres ad una dimensione politica e culturale moderna, legata alla dignità pubblica dei personaggi ritratti, prima ancora che al loro valore emblematico: calati perfettamente nella loro realtà sociale, della quale sono parte significativa e portante. Sul piano del gusto letterario, del resto, nel corso del Seicento questo processo si sarebbe convertito nel suo opposto, e avrebbe condotto alla scrittura di biografie minute, con un’impostazione aneddotica e a volte sogghignante, come nelle Brief Lives che John Aubrey scrisse in Inghilterra tra il 1669 e il 1696 (un’edizione parziale è Vite brevi di uomini eminenti, Adelphi, Milano 2015).
Tra i ritratti a olio degli ultimi anni olandesi, invece, spicca la presenza, solida e grave, di Jacques Le Roy (Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, 1631), già mercante di polvere da sparo, poi personaggio di rilievo dell’amministrazione spagnola nelle Fiandre: di queste era reggente Isabella Clara Eugenia d’Asburgo, che Van Dyck naturalmente ritrasse, alcune volte anche in abito di clarissa.
In mostra è dato spazio anche ad alcune prove mitologiche di Van Dyck, che trovano ispirazione nelle fonti letterarie più nobili o ricercate: così, dalle Metamorfosi di Ovidio nasce Vertumno e Pomona (Genova, Musei di Strada Nuova, c. 1630), dove non va trascurato di cogliere la bella natura morta nell’angolo in basso a sinistra, mentre dal Pastor Fido di Giovan Battista Guarini abbiamo il coreografico Amarilli e Mirtillo (Torino, Galleria Sabauda, 1631-32), memore dei Baccanali di Tiziano; e ancora, Teti nella fucina di Efesto (1630-32) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, scena dell’Iliade, seconda versione del quadro di Potsdam. È poi esposta La continenza di Scipione (1627-28) della collezione di Angiolo Magnelli a Firenze, oggetto di una recente attribuzione a Van Dyck, in concorrenza con il quadro, iconograficamente paragonabile, del Christ Church College di Oxford.
La massima consacrazione della carriera di Van Dyck consisté però nel suo ritorno in Inghilterra (al 1620 risaliva un primo soggiorno), alla corte di Carlo I Stuart. Scorrono in mostra i volti di alcuni protagonisti di quegli anni: l’allegorica Lady Venetia (Milano, Palazzo Reale, 1633-34), coronata dai putti quale Prudenza vittoriosa sul Vizio; Dorothy Savage e la sorella Elisabeth (Londra, National Gallery, 1635), calibratissimo studio di gesti, nel quale nulla si potrebbe spostare senza alterarne l’equilibrio compositivo; Katherine, Lady Stanhope (Londra, coll. privata, 1635-36), che alcune fonti accostano sentimentalmente al pittore. Ma soprattutto i membri della famiglia reale, Carlo I e la regina (Olomuc, Museum umění, 1632), Guglielmo di Nassau-Orange e la principessa Maria Stuart (Amsterdam, Rijksmuseum, 1641), tra le ultime opere di Van Dyck, e ancora I tre figli maggiori di Carlo I, nelle due interpretazioni collocate l’una di fronte all’altra: quella della Galleria Sabauda (1635), piuttosto naturale fin nel moto istintivo dello spaniel accarezzato dal giovane Carlo e quella, affatto diversa, della Royal Collection inglese (1635-36), costruita e solenne, dove anche ai cani è chiesto di rimanere in posa, come porcellane tra i tappeti e i broccati.
Van Dyck morì, ancor giovane, proprio alla corte di Carlo I che, affezionatissimo, si prodigò in ogni cura possibile. La scomparsa del pittore arrestò quindi un percorso di grande ricercatezza e innovazione, soprattutto nella composizione delle figure. E tuttavia, aveva certamente ragione Fromentin nel dire che al peso di Van Dyck si deve la nascita di «tutta una scuola straniera», quella inglese, di Reynolds prima, di Gainsborough e Lawrence più tardi.
*Ritratto dei tre figli maggiori di Carlo I, 1635, olio su tela, Torino, Musei Reali-Galleria Sabauda
Informazioni utili
Van Dyck. Pittore di corte
Musei Reali-Galleria Sabauda
Piazzetta Reale, 1
Dal 16 novembre 2018 al 17 marzo 2019
Orario: 9:00-19:00 (chiusura della biglietteria alle ore 18.00)