Lo Städel Museum (Francoforte sul Meno) ospita la prima retrospettiva tedesca di Lotte Laserstein al di fuori della città di Berlino.
Quaranta opere fra dipinti e disegni per una piccola ma raffinata retrospettiva concentrata sul periodo più importante della pittrice, quello compreso fra gli anni Venti e Trenta, drammaticamente cruciali per la Germania e l’Europa. In collaborazione con la Berlinische Galerie. Fino al 17 marzo 2019.
A lungo dimenticata in conseguenza della sua vita appartata in Svezia, Lotte Laserstein (1898-1993) è stata una delle più interessanti artiste protagoniste del nuovo corso della pittura tedesca fra le due guerre. Nata nella Prussia orientale nel 1898 da padre tedesco di origini ebraiche, respirò un clima artistico sin da bambina, poiché la madre fu pianista e decoratrice di porcellane, mentre la zia Elsa Birnbaum dirigeva una scuola privata di pittura. Fu lei la sua prima maestra, e i suoi insegnamenti si rivelarono buoni se nel 1921 (dopo un perfezionamento nell’atelier di Leo von Konig) la giovane Lotte fu ammessa all’Accademia di Belle Arti di Berlino, che aveva aperto i corsi anche alle donne appena due anni prima.
È l’epoca della controversa Repubblica di Weimar, della Germania ex imperiale ridotta alla fame dalla crisi economica e dalle pesantissime condizioni di pace imposte dall’Intesa dopo l’armistizio di Compiègne. Eppure, la vita culturale conosceva in quegli anni una paradossale creatività, unita a una frenetica joie de vivre, ben diversa tuttavia da quella della Belle Époque; l’ebbrezza sembrava l’unica strada per dimenticare le miserie della vita quotidiana, dove tuttavia la modernità irrompeva con le sue luci: il cinema, l’automobile, una prima timida liberazione sessuale, e soprattutto l’emancipazione femminile che sotto la spinta dei rivolgimenti sociali degli anni della Guerra, aveva dotato la donna di una nuova consapevolezza di sé.
Lotte Laserstein respirò appieno questo clima. Ne seppe però cogliere anche le miserie morali, originate dai traumi del dopoguerra e dalla difficile situazione economica. Fra i cabaret, i jazz club, i night club, si respirava un’aria di stordimento, di trasgressione (numerosi i club per tossicodipendenti e invertiti di ambo i sessi), e fondamentalmente di solitudine. Alla taverna (1927), riassume con efficacia l’alienazione urbana di un’epoca luminosa ma sofferente, dove il materialismo comincia a sopraffare la spiritualità e i rapporti umani. Edward Hopper, venti anni dopo, svilupperà una poetica simile per raccontare l’America del secondo dopoguerra.
Donna indipendente, interamente votata all’arte al punto da scegliere il nubilato a vita, Laserstein concentrò principalmente la sua pittura sulla Neue Frau, ovvero la nuova figura femminile che stava acquistando un’indipendenza sempre maggiore all’interno della società, sinora patriarcale. Le emergenze della Grande Guerra avevano richiesta la sua presenza sui luoghi di lavoro, anche in mansioni di una certa responsabilità, e da questa nuova prospettiva le donne riuscirono ad affrancarsi dal secolare ruolo di mogli e madri; lavorando, guadagnavano, e questo dava loro indipendenza materiale e psicologica.
Pur caratterizzate da sguardi intensi, sottilmente beffardi, le sue donne non sono mai androgine, come accade nella Nuova Oggettività, e la loro bellezza non è mai appariscente, bensì improntata a una raffinata sobrietà; in quei volti può riconoscersi una qualunque giovane donna tedesca dell’epoca, fiera del proprio corpo e dell’emancipazione che stava raggiungendo. In mezzo a questo percorso di avanzata sociale, c’è ancora spazio, ovviamente, per la civetteria, come dimostra Ragazza russa con portacipria (1928); sia detto per inciso, Berlino all’epoca ospitava molti esuli dell’ex impero zarista, e Laserstein ebbe occasione di osservare quei tratti somatici differenti da quelli tedeschi e trarne ispirazione. Quadri del genere restano anche interessanti testimonianze di come l’atmosfera berlinese contagiasse anche persone di altre culture e tradizioni. Vivaci, ma mai appariscenti, le tele della Laserstein possiedono la medesima efficacia narrativa di un romanzo della sua contemporanea e connazionale Irmgard Keun.
Fiera di quell’indipendenza che aveva raggiunta tramite l’arte, Laserstein si ritrasse numerose volte in atelier, intenta a dipingere, includendo nella scena anche le sue modelle. Scene “al femminile” in cui l’espressione intensa e concentrata dell’artista trasmette un profondo impegno nella ricerca, da parte di tutte le donne, dell’accettazione definitiva della loro presenza nella società (un cammino purtroppo non ancora concluso).
La pittura della Laserstein si distingue per l’indipendenza stilistica, non essendo pienamente ascrivibile a nessun movimento artistico. Attinse in parte alla Nuova Oggettività, ma non condivise né la sua polemica sociale, né i suoi tratti neoespressionisti; conservò infatti un approccio marcatamente realista, prestando particolare attenzione alla composizione formale della scena. Caratteristiche che a partire dalla fine degli anni Venti, le valsero l’apprezzamento da parte della critica e del pubblico. Ma intanto si avvertiva il precipitare della situazione politica, con la democrazia che diveniva di giorno in girono sempre più fragile, fino alla spallata finale del nazionalsocialismo di Adolf Hitler.
L’intensità delle opere di Lotte Laserstein lascia trasparire l’angoscia dei tempi: nemmeno nelle pitture che hanno per soggetti i bambini traspare un sorriso o emerge una sensazione di serenità. È l’inquietudine infatti, più o meno marcata a seconda dei casi, a imprimere il suo marchio sui volti. Ma da quel famigerato 30 gennaio del 1933, quando Hitler giurò come Cancelliere, anche per il mondo dell’arte la situazione cambiò radicalmente. La pittura della Laserstein fu inclusa nel famigerato elenco dell’arte degenerata, e in conseguenza di quest’atto le divenne sempre più difficile lavorare e guadagnarsi da vivere.
A ciò si aggiungeva il fatto per cui in Germania, la vita per i cittadini di origini ebraiche si faceva sempre più insostenibile, così nel 1937 l’artista decise di trasferirsi in Svezia, a Stoccolma, città che nel frattempo aveva ospitato una sua personale. A partire dagli anni della guerra, visse appartata senza ricercare quella fama artistica che pure aveva raggiunta, guadagnandosi da vivere eseguendo ritratti su commissione. Il dolore per la tragedia che stava sconvolgendo l’Europa e che la toccò anche direttamente con la morte della madre nel campo di Ravensbruck, è espresso con drammatica profondità nell’autoritratto del 1942, dove una piega amara segna le lebbra carnose, e un’ineffabile tristezza nata da sofferenza interiore ammanta lo sguardo intenso.
Fu riscoperta soltanto mezzo secolo più tardi, per intuizione della Belgrave Gallery di Londra, che ospitò una sua retrospettiva e le permise di riacquistare visibilità internazionale. Lotte Laserstein scomparve appena sei anni dopo, con la soddisfazione, però, di aver ripreso il posto che le spettava all’interno della scena artistica del Novecento.
LOTTE LASERSTEIN
Face to Face
9/19/2018–3/17/2019
STÄDEL MUSEUM
Schaumainkai 63
60596 Frankfurt am Main
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+49(0)69-605098-200