L’artista esplora le nozioni di consumo, storia e produzione di “oggetti rituali” – quotidianamente intesi -, approfondendo le relazioni con oggetti d’affezione e imballaggi, scatole, oggetti banali e parti anatomiche
…Il vocabolario dell’impronta coincide in buona parte con quello della traccia, anche se, ovviamente, si rende necessaria una distinzione concettuale – l’impronta, ad esempio, è una traccia destinata a durare, a sopravvivere, a fare ritorno…
George Didi-Huberman
Al centro dell’esposizione di Leonid Tsvetkov, curata da Lucrezia Cippitelli nella galleria Ex Elettrofonica a Roma, c’è l’installazione Transfer, che dà il titolo alla mostra, presentando il frutto delle ricerche condotte dall’artista a Roma a a partire dal biennio 2013/2014. L’artista esplora le nozioni di consumo, storia e produzione di “oggetti rituali” – quotidianamente intesi -, approfondendo le relazioni con oggetti d’affezione e imballaggi, scatole, oggetti banali e parti anatomiche, una sorta di ex voto contemporaneo, un bric à brac di oggetti trovati, recuperati, calcati e riproposti ma ciascuno scelto con estrema cura.
Oggetti che nella loro “composizione a parete” ricalcano sia l’affastellarsi dei messaggi sui post it appiccicati sul frigo della cucina che gli annunci in ogni lingua sui pali delle fermate degli autobus, sia gli ex voto agli angoli delle strade e nelle chiese, sia le targhe marmoree che le fotoceramiche sulle tombe di famiglia, come anche la disposizione ordinata di merci e prodotti sulle bancarelle di un mercato o l’horror vacui ossessivo delle merci negli scaffali dei supermarket.
Troviamo delle infra-comunicazioni. Messaggi rivolti a tutti e a nessuno, messaggi leggibili per chi conosce l’idioletto. La tecnica del calco determina con forza la scena. La riproduzione del vero allude alla serialità della nostra capacità (capitalista, industriale e informazionale) di produrre e riprodurre cose e dati all’infinito, nella assoluta mancanza di una coscienza ecologica degna di questo nome. Allo stesso tempo ci interroga. Da questa domanda di senso, parlo di abduzione.
Scriveva Massimo Bonfantini: “Quando reagiamo in modo spontaneo e obbligato a uno stimolo esterno, l’interpretazione di questo è un’abduzione quasi-automatica: di primo tipo. Se invece valutiamo fra le diverse cause possibili, scegliendone una fra le conoscenze che possediamo, questa è un’abduzione selettiva: di secondo tipo. Se poi la legge che unisce una causa a un effetto ancora non esiste, ma la troviamo noi, allora abbiamo prodotto un’abduzione inventiva: di terzo tipo. Ma come e perché e fin dove ci è possibile inventare? Varietà e tipi di abduzione inventiva danno origine a uno sviluppo ulteriore della nostra tipologia. Si inventa per spostamento quando la soluzione a un problema la troviamo in un ambito semantico del tutto diverso (primo sottotipo); si inventa quando due cose a se stanti vengono connesse come l’una la causa dell’altra (secondo sottotipo); si inventa soprattutto quando poniamo come esistente un certo contenuto per la prima volta (terzo sottotipo). E questa invenzione dell’inedito può avvenire perché troviamo qualcosa che manca, o perché mescoliamo insieme dei materiali, o perché predisponiamo delle reazioni chimiche. Anche in senso metaforico. L’abduzione è la forma dell’invenzione, tenendo ben in mente che inventare vuol dire trovare. Ma anche trasformare, con la forza dell’intenzione progettuale“.
Da un altro punto di vista, è la parete a determinare l’”artisticità” della composizione, nel senso che il confine, il limite, circoscrive, indirizza, canalizza, suggerisce interpretazioni, letture e senso. Questo della parete/sfondo come dispositivo, vale solo in questo caso, perché l’artista, in altre circostanze, quali la seconda parte del suo progetto romano, con la mostra Downfall, aveva posizionato i suoi “calchi”, i suoi “oggetti”, in ambiti urbani quasi a confondere lo sguardo degli abitanti, come se questi oggetti fossero stati in quel dato luogo da sempre: infatti già anni prima, a seguito di una lunga ricerca sul campo a Monte dei cocci a Testaccio, sede del più grande sito di rifiuti dell’antichità, produsse Downfall, che venne presentato sotto forma di mostra all’American Academy di Roma.
In quella esposizione, i calchi dei rifiuti di imballaggi domestici contemporanei vennero giustapposti ad altri “resti” presenti nell’atrio prospiciente l’Accademia. Successiva a Downfall, la mostra Disturbances fu concepita come installazione site specific di elementi architettonici simili a colonne, composta da calchi in cemento di recipienti usa e getta usati, accatastati e sovrapposti come elementi decorativi che diedero vita alla sua prima mostra nella Galleria Ex Elettrofonica di Roma. Con Transfer Tsvetkov chiude la trilogia, esponendo simulacri di parti di corpo, arti, organi, protesi, evocando così reliquiari ed ex voto metafora di un appellarsi (forse senza speranza) al sovrannaturale, al “sacro”. Quegli “oggetti d’arte” esposti non sono ready made, sono calchi di ready made, cioè, c’è un’intenzione ulteriore che scavalca la pur importante azione di scegliere, individuare, selezionare, e questa è contemporaneamente una prassi Moderna e “antica” che attiene alla costruzione dell’opera d’arte. La disposizione sulla parete della galleria, utilizzata come “cornice di senso”, direbbe Schön, rivela l’atto ultra-duchampiano dell’artista. Come afferma Juan José Lahuerta: “…l’orinatoio ha bisogno del museo, poiché non può esistere senza quest’ultimo. Al di fuori di quell’ambito ‘protetto’ sarebbe semplicemente quello che è sempre stato, un orinatoio. L’orinatoio è l’arte del museo per eccellenza…”. Allo stesso modo, l’arte di Leonid Tsvetkov ha bisogno – come tutta l’arte di oggi – , di un contesto, di uno scenario, di una cornice, sia essa museale, urbana o in una galleria. Una mostra bellissima, una mostra imperdibile.
Leonid Tsvetkov
Transfer
curata da Lucrezia Cippitelli
Fino al 21 febbraio 2019
Ex Elettrofonica
Vicolo di Sant’Onofrio 10 -11 Roma
http://www.exelettrofonica.com
Massimo Mazzone