Perché Sanremo è Sanremo? Una sintesi. Non necessariamente una riuscita. Vince Mahmood con il “Marocco pop” di Soldi
“That Love is all there is, Is all we know of Love”, una delle citazioni più abusate di Emily Dickinson, che in questo caso potrebbe diventare “That Sanremoo is all there is, Is all we know of Sanremo”, tradotto… Perché Sanremo è Sanremo. Di tutti i fiumi di inchiostro (anche telematico) che ogni anno puntualmente vengono spesi per parlare di Sanremo l’unico vera sintesi efficace resta questo adagio, lascito del periodo d’oro di Pippo Baudo. Suo il record di presenze festivaliere come conduttore, 13, suo il Festival con lo share medio più alto, quello del 1987 con il 68,71% (vincono Tozzi, Ruggeri, Morandi, con Si può dare di più), suo quello con la media di telespettatori più alta, 1995 con 16 845 000 spettatori (vince Giorgia con Come saprei), suo – poi – anche il record negativo, con l’edizione 2008 vinta da Giò di Tonno e Lola Ponce, spettatori medi solo 6 810 000 e un misero share del 36,56%. Giò di Tonno era in gara anche nell’edizione record del 1993, ma in quell’occasione non arrivò nemmeno in finale.
Ma con o senza Pippo, in realtà, poco cambia, il senso del carrozzone Sanremo – svecchiato, rinnovato, con uno sguardo al passato, con un’apertura internazionale, con un accento autarchico – resta pressoché sempre il medesimo: lamentarsi.
A tirare avanti la baracca quest’anno ci ha pensato di nuovo Baglioni, portandosi appresso due comici, Claudio Bisio e Virginia Raffaele. 24 cantanti in gara (due dei quali, Mahmood e Einar – ex X Factor e ex Amici di Maria – vincitori di Sanremo Giovani), nessuna eliminazioni e per la serata dei duetti un record di 56 artisti sul palco dell’Ariston nell’arco di una sola serata. 56 artisti che… «ci daranno filo da torcere» si insinua mia madre.
La giuria di qualità, dopo che negli anni scorsi s’era vista la presenza di Greta Menchi (Youtuber non tra le più brillanti), quest’anno è diventata la giuria d’onore. Giuria che ha premiato come miglior duetto della serata dei duetti quello tra Motta e Nada. Il pubblico dissente e fischia il povero Motta, in gara con Dov’è l’Italia, a cui tocca ritirare il premio. In giuria Mauro Pagani (presidente), Ferzan Ozpetek, Camila Raznovic, Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci, Beppe Severgnini, Serena Dandini e Joe Bastianich. “Certo, con ‘sti radical chic”, sbotta qualcuno che nel 2019 ancora non conosce il significato di radical chic. Giuria d’onore e sala stampa hanno avuto poi un peso decisivo sulla vittoria finale, a svantaggio del televoto, cosa che ha creato qualche scontento, tra cui quello di un vicepremier. È la quota indie, quella che fa contenta la critica (una parte) e il pubblico con una qualsivoglia cultura musicale, ma scontenta il Paese reale™. Con Motta («Ma chi è questo?» incalza mia sorella) nella quota indie anche gli Ex-Otago e The Zen Circus, forse Ghemon, con un piede nella quota urban assieme al vincitore, Mahmood (la sua Soldi una delle canzoni più belle in gara e, nonostante l’orchestra, senza odore di muffa addosso), ai Boomdabash (che però sono reggaeton) e Achille Lauro (che però è in gara con un pezzo rock, Rolls Royce). Per il pubblico medio però sono tutti “quelli che rappano” (da segnalare, solo per amor di completezza, anche i rapper Livio Cori con Nino D’Angelo, Shade con Federica Carta e Rancore con Daniele Silvestri, a cui è andato il Premio della critica Mia Martini). Ghemon, sulla scena rap da anni, in gara con Rose viole ha confermato integrità e ricchezza artistica.
Poche donne in gara, si lamenta qualcun altro, solo cinque. «La voce maschile è più armoniosa, più bella, le voci famminili belle, aggraziate e giuste sono meno che quelle maschili» dice Renga (in concorso con un solito pezzo “alla Renga”) al Dopofestival, la Venegoni non riesce a trattenere un «Ma che stai a di’?!». Anna Foglietta, al fianco di Rocco Papaleo e Melissa Greta Marchetto alla conduzione del Dopofestival, non nasconde una faccia oltre lo sbigottimento. Baglioni per sedare la polemica sul nascere, come suo solito, chiosa con una battuta su tenore di vita e popolo soprano. Foglietta, tra l’altro, sarebbe stata ottima come presentatrice per Sanremo, al posto di Virginia Raffaele che è una brava comica, sì, ma come presentatrice lascia il tempo che trova. Due minuti di un’ospitata della Hunkizer sono bastati a farla sparire del palco. Tutte cose, comunque, di cui tra due giorni non si ricorderà più nessuno.
Renga, facendo un passo indietro, probabilmente faceva riferimento ad alcune ricerche scientifiche i cui risultati mettevano in luce non tanto il fatto che le voce femminili sono meno armoniose ma, invece, che il cervello maschile (in estrema sintesi) è meno predisposto ad ascoltarle – insomma, un pasticcio da talk show alle due di notte (dovrebbe essere illegale già solo per questo). Fatto sta che, tra momenti di conduzione non proprio brillantissimi e siparietti comici al limite dello sbadiglio, le più convincenti sono state loro, le donne. Arisa, colpita da febbre proprio nella serata della finale, si è presentata con un pezzo super pop (Mi sento bene) tratto da un album (Una nuova Rosalba in città) che attinge dagli anni ’80 e la vede come nuova eroina della musica leggera italiana a cavallo di unicorni glitterati. Tra le decane Patty Pravo e Loredana Bertè. Calvetti per Patty Pravo arrangia bene una canzone niente male, Un po’ come la vita, ma Patty proprio non c’aveva voglia a questo giro, o almeno questa è l’impressione «Avevo fatto nove festival e ho detto facciamo il decimo e non ci pensiamo più». Si porta appresso Briga (ex Amici di Maria), che non aiuta. Dovendo scegliere tra gli autori del brano, Zibba sarebbe stato meglio. I commenti però, come al solito, sono stati tutti sul look e l’età (e i “ritocchini”). A sorpresa invece grande trionfo di Loredana Bertè, habitué del Festival certo, ma anche delle pessime accoglienze. Quest’anno invece, con Cosa vuoi da me, Loredana non dà adito a polemiche, capricci o bizze da star maledetta e conquista il pubblico: per lei calorose standing ovation che hanno tutto il suono di un risarcimento per una carriera (e una vita) da grande leggenda della musica. Arriva al 4° posto e il pubblico fischia ininterrottamente per protesta. Loredana si conferma come una vera e propria araba fenice (lei stesso lo cantava in suo pezzo). Poi c’era anche Anna Tatangelo.
Il momento più riuscito però è stato l’incursione di Ornella Vanoni, che passava di lì come ospite. Gratis «Ma non fateci l’abitudine», specifica. Carica a pallettoni la Signora dalla musica italiana bacchetta Virginia Raffaele per come l’ha imitata: «Tu che mi hai rovinato la vita facendomi passare per una rimbambita! Il pubblico avrà detto “se la fa rimbambita si vede che è rimbambita!”, una pazza, una maniaca sessuale! Non sono mica una rincoglionita!», sbotta Ornella a cui scappa anche un bel «porca puttana!». Insomma, si ride. Non si può dire lo stesso per comici e gag, ma tra i momenti più visti si registra lo show di Pio e Amedeo che hanno monopolizzato il palco dell’Ariston per ben 20 minuti. Quest’anno è andata così, niente ospiti internazionali!, l’autarchia (o forse il budget) ha voluto ci fossero solo ospiti italiani: Ligabue, Giorgia, Andrea Bocelli (con figlio), Fiorella Mannoia, Alessandra Amoroso (accompagnata della polemica “ma si merita di essere un’ospite sanremese sì o no?”), Riccardo Cocciante, Eros Ramazzotti, Antonello Venditti, Raf con Umberto Tozzi; in una pioggia di duetti sull’onda della nostalgiorrea. Il medley Il battito animale/Tu/Ti pretendo/Gloria/Gente di mare ha fatto letteralmente scatenare tutto il teatro, per Sotto il segno dei pesci e Notte prima degli esami grandi attimi di magone. A Sanremo si va per essere santificati, dopotutto. Chissà agli stessi che trattamento sarebbe stato riservato in una trasmissione come Ora o mai più, dove, per esempio, al “Maestro” Wolfang Amadeus Minghi (così lo chiama Vasco Rossi) è stato detto, dai suoi stessi colleghi sanremesi (Vanoni, Cotugno, Rettore, etc), che Vattene amore (3° posto a Sanremo 1990) è una «menata galattica», che «fa schifo».
Altra polemica quella di Striscia la notizia che consegna un bel tapiro a Achille Lauro, reo di inneggiare alla droga nella sua Rolls Royce. «Sei un ignorante! Parla di status symbol, di lusso!, è una macchina!», risponde il rapper/cantante/poeta/scrittore scappato dalla provincia romana (portandosela tutta appresso) a un sempre più inutile Staffelli. Chissà se un tapiro ai tempi se lo sarebbero preso anche i Beatles (o Rihanna). Intanto nessuno s’è chiesto com’è che Arisa, in Mi sento bene, è contenta accarezzando cose. Meglio. Achille Lauro, tra l’altro, nella serata dei duetti si è esibito con Morgan: “C’est la vie, Rolls Royce, Rolls Royce, Rolls Royce”, e fa già ridere così.
«Le polemiche ci sono sempre state, sono sempre state il sale, un ottimo contorno del tutto, forse questa volta si è ecceduto. Sono più quelli che parlano e non dovrebbero parlare» ha detto Paola Turci, in gara con L’ultimo ostacolo, in una telefonata con RTL, in proposito alle polemiche che sono piombate sul Festival a seguito della vittoria di Mahmood, chiamato immigrato, Maometto, arabo da leghisti e dai criptofascisti. Simbolo di integrazione!, festeggiano gli altri, che dimostrano di aver capito non molto di più della storia di un ragazzo italiano e del concetto stesso di cultura.
Sanremo per una volta sembra spingere nella direzione giusta, ma resta nell’aria il quesito che si pone Motta nel suo brano “Dov’è l’Italia amore mio? / Mi sono perso”.
«Sanremo serve anche a dire “guarda com’è vestito, guarda com’è invecchiato”», è Baglioni, in conferenza stampa, che riassume con estrema sintesi ed efficacia il senso tutto di Sanremo, e basterebbe questo, però vuoi non scriverlo lo stesso un articolo?