La proposta di legge firmata dal leghista Alessandro Morelli prevede la valorizzazione “forzosa” della musica italiana nelle radio, riservandole un terzo della programmazione giornaliera
“Tale iniziativa avrebbe un impatto positivo sul mercato radiofonico italiano, generando maggiori introiti in diritti d’autore e diritti connessi, e contribuendo ad aumentare la musica prodotta in Italia“. Non ha tentennamenti, il presidente della Siae Mogol, nell’appoggiare la proposta di legge firmata dal leghista Alessandro Morelli, presidente della commissione Trasporti e telecomunicazioni della Camera, che prevede la valorizzazione “forzosa” della musica italiana nelle radio, riservandole un terzo della programmazione giornaliera. Un provvedimento, sottolinea Giulio Rapetti, che “richiama altri esempi in Europa, come il sistema delle quote, utilizzato da molto tempo in Francia, dove dal 1994 le radio sono obbligate a trasmettere musica francese per una percentuale pari almeno al 40% della programmazione giornaliera“.
È un tema che periodicamente si ripresenta, quello delle “quote”, nei più diversi ambienti: a cavallo fra la disposizione di legge, come le contrastate “quote rosa” politiche, o i film nazionali che la tv è tenuta a trasmettere in percentuali prestabilite, e la prassi, come quella che vuole che le auto blu a disposizione di politici e funzionari siano preferibilmente italiane, come – sono esempi – le divise di hostess e steward dell’Alitalia. Di tanto in tanto l’idea fa capolino anche nel calcio, con esperti pronti a predicare quote fisse di giocatori italiani purosangue nelle squadre. Utopie che provengono da ogni sfera ideologica, e che vorrebbero che un’opzione quantitativa porti automaticamente ad uno scatto in avanti qualitativo: forzando la libertà delle dinamiche sociali e del mercato con antistorici rigurgiti protezionistici. E l’esempio della Francia potrebbe funzionare a conferma, stante il proverbiale sciovinismo dei transalpini.
Risoluzioni, comunque, destinate ad infrangersi davanti al vaglio internazionale: o c’è qualcuno che forse pensa che riempire le radio di canzonette “opera di autori e di artisti italiani e incise e prodotte in Italia” ne garantisca l’apprezzamento sulla scena internazionale, che deve essere quella di riferimento? Se il risultato fosse questo, ci faremmo noi promotori di un provocatorio disegno di legge che allarghi il provvedimento alle arti visive: perché non statuire che musei e gallerie italiani espongano per legge opere nate e cresciute dentro i confini? Artisti mediocri e miopi galleristi (gli omologhi degli interessatissimi produttori discografici nel caso in questione) gongolerebbero, pronti a trionfare in uno scenario che riduce la competizione al solo sempre più modesto panorama nazionale. E la prossima Whitney Biennial, che schiererà 75 artisti provenienti da una ventina di nazioni, fra cui Egitto, Ghana, Marocco, Colombia, ma nessun italiano, sicuramente rigurgiterebbe di presenze tricolori…