L’antropologo Andrea Staid dialoga con l’artista Arianna Ferreri sulla valenza intima, sociale e politica della performance. Guardando il suo ultimo progetto al museo romano
Cosa c’entra un antropologo con l’analisi di una performance artistica? Che tipo di rapporto ci può essere fra approcci che potrebbero sembrare a prima vista così differenti? Può esistere un’antropologia della performance? Il primo antropologo a intersecare questi mondi è Victor Turner, che conia il concetto di antropologia della performance durante il periodo delle sue ricerche tra gli Ndembu in Africa, dove individua il fenomeno del dramma sociale, ovvero si occupa di tutte quelle espressioni e di quei linguaggi – come i tanti generi di performance – in cui si mostrano e si discutono gli aspetti “critici” della vita: si tratta di elaborazioni che mettono in scena o semplicemente mostrano i momenti drammatici dell’esistenza, così come può esserlo un dramma di Shakespeare, rispetto alle storie che l’hanno ispirato. Importante per la definizione dell’antropologia della performance, è tutto il lavoro di analisi che l’antropologo realizza nei mondi indigeni che studia in anni di ricerca sul campo, il metodo antropologico diventa un ampio strumento di comprensione per il dramma sociale. Nel mese di dicembre 2018 si è svolta al Macro Asilo di Roma un’interessante performance di Arianna Ferreri, con musiche di Damoon Keshavarz dal titolo Possession: abbiamo rivolto qualche domanda all’artista…
Cosa ti ha spinto a esprimerti tramite una performance? Che significato ha e a cosa si ispira il tuo lavoro?
Materializzazione, questo è la scultura. Al di là della formalizzazione che assume. Non è più importante per me in questo momento la preziosità del materiale trattato, come lo è per altri artisti. La preziosità che mi ”limito” a coltivare è quella dell’intimo nell’umano. I rapporti che mi ”limito” a veicolare sono quelli della realtà che codifico attraverso il linguaggio della fisicità, che ora più che mai per me è diventato il suono, la musica, il mio stesso corpo. Se posso riuscire, attraverso questi due veicoli di linguaggio, a condurre un sentore della bellezza che talvolta è sepolta nei nostri tempi o si nasconde dietro i nostri desideri soggetti alle dinamiche della società occidentale, avrò forse realizzato il mio sogno artistico. Ho trasformato la mia pratica artistica in presenza scultorea e sonora. Mi è sembrato in questo modo di aggiungere un ingrediente necessario. Rispetto alla performance, inizialmente non la vedevo come una pratica artistica che potesse essere utile, per questo per me esisteva già il teatro la musica e lo spettacolo in genere, nella “rappresentazione”. Invece ho potuto, solo facendone esperienza, ricredermi. Questa volta quello che era mettersi su un palco ed esibirsi diventava mettersi in una sala ed esprimersi nella forma più essenziale che mi apparteneva. Finalmente ho capito quale poteva essere per me manifestarmi come “forma”. La plasticità di un materiale povero esprimeva essenzialmente una dimensione più intima. Io stessa esprimevo per mezzo di un corpo. Il mio corpo si sintetizzava per mezzo di due oggetti che ne facevano parte, lo sgabello con il quale mi muovevo e il tessuto di feltro rosso che mi avvolgeva. Emergeva un carattere scultoreo del mio esistere in quel momento e in quella circostanza. Nasceva così una manifestazione di Possession nella sala della preghiera di Gianfranco D’alonzo, all’interno del progetto multidisciplinare Please. Mi sono trovata a confrontarmi con uno spazio che presentava un tappeto che occupava gran parte dello spazio. Lì ho pensato: “dove posso andare?” “Quale spazio posso occupare?”. Per necessità del carattere fisico di ”impossibilità” che avevo mi sono trovata a scegliere di stare sul bordo esterno della sala, quello che il tappeto non occupava. Si potrebbe definire – per proprietà funzionale dello stesso tappeto – la zona meno comoda, eppure in quelle condizioni fisiche a me più congeniale, mi si apriva così la possibilità di mettere lo spettatore ancora più radicalmente difronte a una scelta: che spazio occupare. Il mio riferimento era il confine, che mi permetteva di procedere nello spazio, avere un riferimento: se non ci fosse stato? Il confine sarebbe diventato semplicemente il muro di confine, e come sarebbe il mondo senza muri e confini? E quando quello non basta per orientarsi nello spazio? Allora ho cercato le persone, i loro corpi che occupavano lo spazio, e pure nella mia limitazione fisica le ho esplorate come esploravo lo spazio.
Hai approfondito teoricamente le culture dalle quali prende forma la tua performance?
Solo ora che ho provato l’esperienza di cosa sia una performance ho trovato il coraggio e l’interesse che mi porta ad esplorarlo teoricamente, se così vogliamo dire. Tengo nelle mie memorie immagini di Helio Oiticica con i suoi Parangolè, Joseph Beuys con il coyote, Claudio Cintoli con la sua Crisalide. Difficilmente parto da una profonda conoscenza e poi penso in diretta conseguenza ad un lavoro. Prima la prassi e poi la teoria. Fa parte di me arricchire la mia conoscenza, solo così penso possa nascere qualcosa di originale autentico e sincero.
Che ricadute politiche in senso libertario può avere il tuo lavoro? In che rapporti sei con Escuela Moderna/Ateneo Libertario?
Trovo fondamentale e necessaria l’esistenza di un ateneo libertario: la libertà individuale, la libertà economica, la libertà politica e l’associazione volontaria. Tutti elementi che a mio avviso si possono vedere anche in questo progetto ”Macro Asilo”. Un museo enorme pieno di cose belle e gratuito è un fatto incredibile. Nella sua varietà offre mille manifestazioni. La dinamicità creata da una performance come Possession, come altre avvenute all’interno del museo, crea una società di partecipanti, non più di spettatori passivi. In cui ognuno può muoversi finalmente libero senza condizionamenti, se non quelli dei fondamentali che fanno della libertà le sue caratteristiche. Solo nella spontaneità del movimento allora ognuno trova la sua dimensione di benessere e può essere di conseguenza pronto a trasmettere. La libertà è un fondamentale strumento di conoscenza e non molti hanno il coraggio o la possibilità di esprimerla. Direi che una performance come questa di per sé stabilisce importanti rapporti sullo stile di ateneo libertario. Il dialogo e la partecipazione per cui diventa fondamentale nell’ambito di un progetto la collaborazione e il tessuto delle relazioni. Si crea così un fantastico libro aperto in cui il testo si scrive con il contributo di ciascuno, delle varie esperienze e ragioni.
Andrea Staid