La nostra inviata Cristiana Curti propone una dettagliata riflessione attorno alla Biennale d’Arte di Venezia 2019, addentrandosi nel Padiglione delle Esposizioni e analizzando la curatela di Ralph Rugoff.
Tutto cambia, caro lettore, tutto è in perenne mutazione, come ci insegna sin dal VI secolo a.C. il nostro adorato Eràclito, e tutto deve essere riconsiderato al volgere di un biennio, nuovo metro fenomenico accettabile per permettere a noi, poveri umani, di acchiappare almeno un lacerto di quella parvenza di verità che ci è concesso intravvedere delle vicissitudini di questo mondo malato.
La Biennale d’Arte di Venezia non si tira indietro ed è, anzi, come vado ripetendo da molti anni (e ormai temo che mi si osservi come si osserva con fastidio una goccia cinese), l’unica vera cartina al tornasole che ci aiuta a percepire dove l’umanità ferita di questi tempi volge il guardo. I detrattori della Biennale non sanno trovare, peraltro, un campo di ricerca così fertile come questo: per qualche mese hai sott’occhio, con vivida chiarezza, l’interpretazione del mondo e il potere politico-culturale di tutti i Paesi che vi partecipano (e non son pochi: quest’anno ben ottantanove – di cui quattro per la prima volta in kermesse -, tre in più rispetto alla già pingue edizione del 2017).
Perché ormai l’arte vera e propria, quella che fa frullare le penne dei critici, quella che fa imbizzarrire gli appunti degli storici, quella che fa sussultare la narice dei collezionisti sinceri, quell’arte lì, insomma, alla Biennale è merce rara. Nel senso che davvero il “format” Biennale è specchio del mercato e dell’intelligentsia culturale e politica del momento. E, tu mi dirai, caro lettore, presagio sin troppo elementare… vero, ma un conto è sentirselo dire per anni come càrola di frasi fatte che una mente sempre ben disposta come la mia rifiuta, un conto è comprendere che qualcosa è perduto per sempre.
L’egemonia delle gallerie d’arte, perlopiù di matrice anglosassone (se anche la mia scoperta più amata, quel Michael Armitage del Ladro di polli in Arsenale più elettrizzante che abbia mai visto – e che si può vedere sino al 26 maggio anche alla Fondazione Sandretto a Torino -, il pennello più talentuoso dell’ultimo decennio, è già cavallo della sofisticata scuderia di Jay Jopling, il che significa tristemente che non posso permettermelo…), che fanno vorace incetta di inviti da distribuire ai propri ingordi clienti, è così preponderante che la “scenografia” della rassegna pivotta intorno alle partizioni degli artisti in isole quasi distinguibili.
E Ralph Rugoff, il capo-popolo, il pifferaio magico di questa cinquantottesima rassegna, è il regista consapevole e aggressive, come benissimo suggerisce una mia acuta amica, art advisor di lungo e ottimo corso, che ne segue le imprese presso la Hayward Gallery da tempo. Ben riconoscibile è in effetti il tocco rugoffiano, sottile e astuto, che piazza con abilità consumata, parlando in termini di qualità formale e stilistica, un colpo al cerchio e uno alla botte, accontentando tutti i palati in barba ai presunti “tempi interessanti” (e quando mai i tempi cavalcati dalla Civiltà, occidentale o orientale, sudequatoriale o a Nord dell’equatore, furono tediosi?) e si protegge le terga evitando le critiche più puntute che potrebbero arrivare (ma davvero ancora arrivano?) da una linea critica di forte impronta.
In effetti, se ci si pensa bene, ciò che irrita maggiormente della Biennale è il titolo della manifestazione che ogni anno ci viene propinato e su cui si dipanano, ordinate e coscienziose, le conferenze stampa di mezzo mondo. Preferibile sarebbe chiamare le rassegne curatoriali “menu à la carte”, si farebbe miglior servizio alla comprensione e alla verità. Tout le monde, del resto, afferma che Venezia, la cui vernice è arretrata di un mese rispetto al passato da ormai tre edizioni, vien prima di Basilea per spianare le acque e dar tempo ai flaneurs dell’arte in forte crescita numerica di sedimentare il bolo lagunare, agguantare le notizie dell’astro crescente dal solerte consigliori che sussurra subdolo e amorevole quanto sia importante avere in collezione un artista inserito in un’esposizione veneziana e ritrovarselo già infiocchettato in Svizzera, pronto per essere polverizzato il primo giorno di fiera. E mentre molti addetti ai lavori lamentano che il pass per la vernice biennaliera quest’anno è stato concesso con il conta gocce, nei giorni della vernice la confusione, la ressa, la calca sono di tali insopportabili proporzioni che a volte ti chiedi di quale privilegio ti abbiano omaggiato, benché, se sei sincero con te stesso, mai tale privilegio vorresti barattare.
Perché il popolo della Biennale è molto cambiato nell’arco di soli due anni. La fiesta un poco scomposta informa ormai senza pudore qualsiasi tornello delle tappe degli art-addicted. Si ciondola con i bicchieri in mano per ogni dove, dentro e fuori i sacri recinti biennalieri, ragazzotti e ragazzotte platealmente disinteressati alle cose d’arte sfoggiano outfit d’autore e calzature improbabili per macinare i millanta passi da compiere anche solo per vedere un terzo della mostra ai Giardini. Mi dirai, caro lettore: è sempre stato così. E io ti risponderò che no, non è vero. Quest’anno il privilegio della vernice è stato largito per la più parte a chi doveva solo esserci anche se dove mai fosse non gli era per nulla chiaro. E ci si ritrova, moltiplicati, storditi e anche inconsapevoli, parte del gioco che tenterò di spiegare più oltre. Del resto, ed è sempre più perspicuo, anche le mostre fuor di Biennale possiedono un tale gradiente di marketing e relazione pubblica che partecipare all’appuntamento pur solo con una presenza volatile diventa imperativo. Per la verità, sono le mostre extra biennaliere, alcune davvero straordinarie per qualità delle opere e dovizia curatoriale (come l’incredibile Kounellis da Prada – da fulminati sulla via di Damasco – o Gorky a Ca’ Pesaro, oppure ancora Burri a San Giorgio, ma anche il poetico Tuymans a Palazzo Grassi, per non parlare di Baselitz all’Accademia) a segnare il passo della rappresentanza ufficiale (civica, ministeriale, privata…) che dispone con maggiorato orgoglio i gioielli di famiglia nel gran spolvero generale.
Ma la mostra di Rugoff, suddivisa artatamente in due tranches approntate dai medesimi artisti ai Giardini e in Arsenale, senza un vero filo conduttore, salvo quello esplicito e diretto di cui parlerò fra poco, non riesce a convincermi del tutto, malgrado i fans del curatore asseriscano essere questa una delle migliori biennali degli ultimi decenni. In verità, questa edizione ha da insegnare parecchio a chi vuole osservare e a chi pensa, come me, che l’arte sia anticipatrice del mondo che verrà. Evitiamo oziose considerazioni intorno all’alibi procurato per conferire sapore speculativo all’annuncio della curatela 2019 alcuni mesi fa (“May you live in interesting times”…) che davvero lascia il tempo che trova e verifichiamo con attenzione chi siano i partecipanti e quali opere essi abbiano selezionato per la rassegna, questione che sembra secondaria nel folto chiacchiericcio biennaliero, ma che non lo è affatto.
Rugoff convoca (secondo me correttamente) artisti vivi e in parte sconosciuti e vecchie glorie aduse alle forti emozioni internazionali. Una modalità di cernita non nuova, ma qui portata alle estreme conseguenze delle ricerche dei curatori delle appena precedenti edizioni. Si segnala la totale assenza di artisti italiani (merci beaucoup…) il che la dice lunga sul peso che ha la nostra arte nel mercato internazionale, fatto salvo per l’eccellente Lara Favaretto che ci inebria con oasi di vera e propria maestria e bellezza, italiani ritenuti forse non congruenti con ciò che il curatore intende dimostrare. Talmente poco congruenti che anche la nostra Lara pare davvero un’outsider in questa esposizione. Così come lo è l’altra dama raffinatissima del percorso rugoffiano, Haris Epaminonda, la quale non a caso, però, si aggiudica nientepopodimenoche un Leone d’Argento.
Ciò che costituisce di questa mostra “firmata” la novità per lo spettatore è l’abile résumé che Rugoff imbastisce con poche mosse e una grandinata a volte irritante a volte sublime, sempre scomposta, di spunti che ricalcano le formule già collaudate del recente passato lagunare delle arti visive. Da Massimiliano Gioni si evince la pregnanza culturale, spesso insolitamente innovativa, dell’artista ai margini del mondo dell’arte, borderline in molti casi anche nei confronti della civiltà di appartenenza. Da Okwui Enwezor (a cui va il tributo per la recente scomparsa) il tema potente dell’arte salvifica e funzionale di coloro che combattono per (ri)costruire la propria identità di Nazione e di Popolo spesso attraverso la denuncia di una condizione sottomessa e ingiusta. Da Christine Macel la certezza che il pensiero critico organizzato per temi e occasioni diventa intellegibile a chiunque, pagando però il pegno di una certa ovvietà per causa di didascalia preponderante…
Il risultato: una shakerata con poche aggiunte (al massimo una punta di snobistica indifferenza per il vasto pubblico, da cui però il peana pressoché bulgaro dei cosiddetti “intellettuali”) di questi ingredienti nati dalla coscienza critica degli ultimi curatori, un’abilità consumata (come già si è detto) nel display di opere che non hanno fra loro alcun filo conduttore, un assunto ben saldo in testa e la capacità di dirottare il pensiero comune verso l’unica vera realtà che la 58a Biennale d’arte visiva di Venezia lascia al mondo. Ovvero che noi bianchi siamo cattivissimi e che dobbiamo lavare la nostra coscienza, nera come la pece, nella divina risurrezione che solo l’Arte ci permette di ottenere senza troppa fatica (anche perché sono gli artisti a provvedere al viatico). Solo se rimettiamo i nostri debiti al rinnovamento provvidenziale e taumaturgico che l’arte engagée ci offre potremo un giorno far parte della schiera di coloro che hanno tentato (o almeno hanno dichiarato il tentativo) di “stare dalla parte giusta”. E potremo sfangarla, come si dice quando si schiva per un soffio il baratro in un giorno di tempesta.
Nei tempi modernissimi dei cosiddetti, spesso sinistri, “sovranisti” planetari, nei tempi in cui vacilla definitivamente la certezza che il mondo, dopo il devastante XX secolo e le sue due terribili guerre precedute e seguite da esecrabili imperialismi e sanguinarie dittature, stesse procedendo garrulo e rinfanciullito verso la concordia e la fine della fame globali, fiducioso in un progresso che non avrebbe torto il capello ad alcuno, insomma nei tempi in cui nessuno statunitense che abbia a cuore il senso della propria Costituzione riesce ancora a metabolizzare il fatto che sia Trump a governare il suo Paese, c’è bisogno di lavare ostentatamente i panni della nostra anima abbruciata per tentare un mea culpa che ci salverà tutti, o meglio che salverà la nostra civiltà, bianca e occidentale, dagli strali di una reprimenda che arriva da ogni parte del globo e che oltre alle bacchette visive utilizza bellicose politiche economiche che mirano a destabilizzare per sempre equilibri assestati da secoli.
Ralph Rugoff ci porge con eleganza il piatto migliore che la nostra sdrucita e malmenata cultura possa sperare di gustare alla tavola dei giusti. L’assoluta preponderanza, all’interno dei due circuiti curatoriali di Giardini e Arsenale, di temi affrontati dagli artisti invitati riguardanti diritti civili calpestati da bianchi colonialisti e oppressori, identità razziali, etniche e sessuali perdute o umiliate, orgoglio e difesa della propria idea di cultura, temi – sia chiaro questo – che hanno ogni diritto di palcoscenico e che anzi rinfrescano le ormai poco frizzanti attrattive di un’Europa dell’arte assuefatta a stilemi rimasticati da decenni, questa, dicevo, predominanza di soggetti tematici orientati a mostrare la (ri)nascita e la ribalta di artisti provenienti da Paesi che non avevano sino a qualche anno fa un tale rilievo per l’Occidente, sempre umanisticamente rivolto verso il proprio perfettissimo ombelico, decreta il vero fil rouge di questa edizione.
Ralph Rugoff offre a noi, pubblico occidentale, la sofferente redenzione per i nostri peccati (politici e) culturali e ci consegna nelle mani degli artisti ospiti di Venezia in quest’anno di grazia 2019. Ci salveremo per via dell’arte rinascente di Paesi che credevamo neppure potessero esprimere una poetica così comprensibile e illuminante per le nostre menti bizantineggiantemente assuefatte agli escamotages di cerebri privi ormai di guizzo creativo. Ma – e qui è il trucco – questa redenzione viene pur sempre congetturata e apparecchiata dai cattivissimi bianchi ed è a uso provvidenziale dei (si spera non più) cattivissimi bianchi. Ci siamo costruiti il peccato, il suo riconoscimento e la salvezza allo stesso tempo. Con un piacevole côté, alla fine: il consueto margine di guadagno che l’ancora occidentalissimo mercato dell’arte, pronto a cogliere ogni sentiment, ci affida insieme ai doverosi flagelli di penitenza… E così diventa più piano seguire il percorso altrimenti sghembo e quasi privo di senso del Rugoff curatore biennaliero. Perdona, caro lettore, la cernita chirurgica fra i molti ospitati nella mostra curatoriale, ma il disegno apparirà più nitido e preciso alla fine di questa disanima. E sappi che ho osservato, fotografato e catalogato tutto, ma proprio tutto. Anche questa, mi rendo conto, è una forma di alienazione che avrebbe ben figurato nel Palazzo Enciclopedico (da me tanto amato) di qualche anno fa…
Iniziamo con ordine dal Padiglione delle Esposizioni ai Giardini.
Subito mi imbatto nell’ottima Nicole Eisenman (1975, di origini francesi ma di residenza newyorkese), con la sua arte premiata negli Stati Uniti per la forza propulsiva della denuncia e per essere un’outsider del pennello in tempi in cui pennellare era diabolico.
Poco più in là, disarticola la comprensione e trasporta il pubblico nella stanza degli orrori il leggiadro macchinone raccogli-sangue del duo cinese Sun Yuan (1972) e Peng Yu (1974), che vorrebbe rappresentare l’impossibilità di addomesticare l’arte, mentre quel braccione terrifico che affascina i presenti nel suo moto perpetuo e mai uguale a se stesso racconta delle nostre nefandezze e dei goffi tentativi di celarle alla nostra coscienza neppure con troppo pudore.
Lungo il percorso labirintico del Padiglione centrale incontro Frida Orubapo (1986), norvegese, che di sé scrive nel suo sito: Frida Orupabo is a sociologist and artist living and working in Oslo, Norway. Her work consists of digital and physical collages in various forms, which explore questions related to race, family relations, gender, sexuality, violence and identity; il che spiega eccellentemente la poetica dell’artista, lasciando comunque il piacere della scoperta per l’impressionante opera presentata in Biennale.
Per Teresa Margolles (1963) la denuncia della condizione femminile in un environment così spietato come quello della violentissima realtà di Ciudad Juárez in Messico si fa materia d’arte: al pubblico non può sfuggire un ennesimo muro qui crivellato dai colpi dei narcotrafficanti e sormontato da filo spinato, ricostruito blocco su blocco dal sito di provenienza, una scuola elementare dove fu innalzato a difesa dei piccoli studenti e delle loro famiglie. Attenzione, però: la denuncia “documentale” non è mai buona consigliera nelle questioni d’arte e la didascalia sovrasta e disperde, come il filo spinato, le buoni intenzioni di quest’opera.
Ancora più esplicita la drammatica sequenza degli “ultimi” ripresi in immagini iconiche dall’abile scatto dell’indiano Soham Gupta (1988). Questi magnifici ritratti esplorano senza pietà, ma con una delicatezza formale che rasenta la bellezza assoluta, i più derelitti fra gli abitanti di Calcutta che di notte popolano luoghi fatiscenti e desolati ai margini della più drammatica delle periferie. Qui la denuncia si permea di un livello estetico talmente evidente da perdere quasi di significato in un canone del tutto inverso rispetto a quanto ottenuto da Teresa Margolles poco prima.
La losangelina Kaari Upson (1972) riprende il tema dell’alienazione femminile e dell’inquietudine che contraddistingue i rapporti madre e figlia in un dialogo tutto interiore che si esplicita in enormi quadroni costituiti da intricati segni caotici, quasi la trasposizione dei banali (ma non troppo) appunti/disegni che si scribacchiano durante le telefonate ”a rete fissa”; specchi della massa irresoluta e irrisolta dell’universo mentale dell’artista, paiono avere significato solo se visti in chiave terapeutica.
Altra aria si respira da Martine Gutierrez (1989) orgogliosa della propria cultura e della propria transgenderità: modella, stilist, fotografa, scrittrice e direttrice dell’elegante rivista Indigenous Woman. Gli scatti sapientemente cuciti su di sé dall’avvenente artista mostrano una teogonia scelta di divinità azteche ambiguamente polivalenti: Tlazolteotl, dea della lussuria, del vizio, dell’adulterio ma anche dell’ostetricia, Xochiquetzal, dea della bellezza, del piacere, della fertilità e del potere femminile, Chin, divinità maschile dell’omosessualità. Effetto calcolato di bellezza garantita.
Non lontano da questi temi, analizzati però con sottile malinconia e maggior introspezione, si situa l’universo del regista e filmaker tailandese Apichatpong Weerasethakul (1970), che sonda il proprio mondo onirico costellato di terrori ancestrali e analisi spietate della propria omosessualità, con un occhio singolarmente rivolto verso l’Occidente e una tecnica filmica innovativa.
Molto interessante dal punto di vista del complesso e doloroso rapporto fra neri e bianchi il lavoro del Leone d’Oro, l’artista afroamericano Arthur Jafa (1960), che con il suo video The White Album (tutto il contrario dei nostri amati scarafaggi peace-and-love) scardina ogni consolidata certezza sulle possibili letture del mondo Occidentale a riguardo del proprio peccato originale rugoffianamente inteso. La teoria di orrori perpetrati dalla violenza bianca nei confronti della razza nera è mediata e in parte mitigata dal rapporto d’amore dell’artista verso alcuni bianchi. In questo caso siamo davvero salvi: qui l’artista ci accusa e ci assolve contemporaneamente. E infine riceve un premio a ribadire quanto siamo grati alla sua clemenza.
Ma è con Henry Taylor (1958) che l’uomo bianco esprime ogni sua turpitudine e per questo viene anche punito (senza assoluzione…). Basti osservare l’eccellente quadrone che mostra un ammanettato scortato da due poliziotti fuori dalla sua bella casa della Louisiana (immagino) per comprendere quale putredine sottende la cultura dominante negli Stati Uniti, mentre alla razza nera sono riservati struggenti ritratti (la sua particolarissima, se non addirittura ossessiva, cifra), poetici e vibranti di vita.
Non riesco a non rimanere avvinta allo straordinario fascino che emana dai grandi teleri “doppiati” della “mia” Julie Merethu (nata in Etiopia nel 1970 e newyorkese di adozione), un’isola di tecnica e qualità artistica elevatissime che incontrerò fortunatamente anche all’Arsenale. Merethu bagna il proprio idioma artistico nelle acque limpide della migliore astrazione occidentale, e si percepisce chiaramente, ma la sua guida dichiarata è l’improvvisazione che l’artista sostiene essere alla base dell’estetica afroamericana, improvvisazione che conferisce un taglio aulico e perfettissimo alle sue opere.
Una prova intelligente e dall’impatto visivo notevole è rappresentata dal lavoro del collettivo nato nel 2006 in Eurasia dal nome emblematico di Slavs and Tatars che spariglia la semantica e adatta a un linguaggio per così dire “liquido” le radici calligrafiche delle molte lingue che rappresentano il globo così da creare nuovi sincretici organismi fonemici che suggeriscono il sinistro cambiamento in opera oggi. Si sta sviluppando un nuovo linguaggio di matrice economico-politica che fungerà da traduttore dei nuovi imperialismi e di nuove possibili sopraffazioni. In questo caso, almeno, l’uomo occidentale è solo uno dei comprimari di questa dissoluzione culturale…
Decisamente esplicito, circa il tema del retaggio pernicioso lasciato dalla colonizzazione in sud Africa, è il lavoro di Kemang Wa Lehulere (1984), che nelle sue installazioni ai Giardini e in Arsenale rappresenta i dubbi laceranti, le contraddizioni e la fatica della ricostruzione di un popolo per decenni oppresso dalla guida bianca e schiavistica del Paese. Riferimenti legati alla vita quotidiana, resi concreti da ambienti realizzati con materiali di recupero e dal forte impatto iconico, parlano di repressione e di odio fratricida ancora in atto.
L’adorato kenyota Micheal Armitage (1984), di cui ho già fatto cenno nel preambolo di questo scritto, rinfranca l’occhio con una gustosa serie di gouaches che riprendono personaggi di una protesta politica, permeata di festosità, a seguito delle nuove elezioni generali nel suo Paese. Le figure sono come congelate in una realtà che ha a che fare sia con il caos della manifestazione sia con la dinamicità del movimento. Il talento innegabile del pittore compie il miracolo…
Per Shilpa Gupta (1976, vive e lavora a Mumbai) la dolorosa e opprimente realtà dell’isolamento, della separazione dalla realtà civile, dell’illegalità perpetrata dai poteri forti contro i deboli della sua Nazione è rappresentata da un’inquietante cancellata dalle forme iperrealistiche che si muove su un binario semicircolare e sbatte ritmicamente e ossessivamente contro il muro cui è addossata sino a romperlo. La crudeltà umana non conosce possibilità di redenzione, l’unica via che rimane all’artista è la denuncia.
La protesta contro le finte certezze del mondo occidentale arriva, diretta e poetica, dall’ironia dolente dello statunitense Alex Da Corte (1980), che disambigua le icone dell’immaginifico della pop-art più nota per riconferire loro nuovi significati, mentre il dubbio di essere partecipi e complici di una non più contrattabile epoca di non ritorno rimane sotto pelle e non è allontanato neppure dagli stilemi giocosi e colorati delle sue installazioni, ricche di riferimenti alla cultura popolare e ai suoi idoli. L’amena cittadina riprodotta in scala minima è quella di una seria televisiva molto seguita negli USA, ma il plastico infonde nel pubblico il sottile turbamento di un villaggio disabitato.
Nessuna speranza per l’umanità, che ha abbandonato la via della compassione e della fratellanza, si trova nell’opera del turco Halil Altındere (1971) che sogna una colonia spaziale per i rifugiati del mondo, soprattutto quelli provenienti dalla martoriata Siria, radice della nostra civiltà mediterranea. In questo caso, la disperazione porta obbligatoriamente all’utopia.
Torniamo nell’angoscia del mondo oppresso e torturato del popolo africano con le potenti immagini a collages minuti della nigeriana Njideka Akunyili Crosby (1983), le cui grandi composizioni proiettano nel pubblico la livida ombra di un mondo costellato dai piccoli quanto inutili simulacri del benessere occidentale in ambienti divorati dalla solitudine e dallo scoramento. Opere di grande qualità compositiva e eccellente tecnica.
Ma il grido più straziante e accusatorio nei confronti della razza bianca ai Giardini si deve forse al duplice video BLKNWS, iniziato nel 2018 e tuttora in corso di produzione dello statunitense losangelino Kahlil Joseph (1981). Le immagini continue e martellanti dei due schermi sono costituite dal mixage di filmati recuperati da internet o dalla tv nazionale: il risultato è una sorta di trasmissione televisiva in progress sulla vita ancora discriminata degli afroamericani, ma che registra anche l’evolversi vorticoso e complesso della società americana tutta. Come già detto altrove, difficilmente la denuncia pura può diventare arte.
Orgoglio nero e bellezza senza scampo invece si attingono dagli strepitosi scatti, velati di arcana abilità compositiva della fotografa e attivista sudafricana Zanele Muholi, notissima per la sua collazione di ritratti della comunità nera LGBT che denunciano la condizione di sofferenza e ulteriore solitudine di persone già di per sé isolate dalle politiche governative. Qui, invece, la denuncia si fa poesia nel nome di una negritudine vincente e non sottomessa, prorompente in tutta la sua fascinazione esotica.
L’ennesima urlata protesta contro lo strapotere della cultura occidentale (nello specifico anglosassone) proviene dai collages di Tavares Strachan (1979), cresciuto nelle Bahamas e inventore di una Encyclopaedia of Invisibility (white), ovvero un digesto delle circa 15.000 voci non contenute nella ben più diffusa Britannica. Il tentativo di costruzione di un lessico indipendente e più naturale per la gente delle isole serve come scudo alla sopraffazione delle politiche inglesi di occupazione del suo Paese. Purtroppo uno stile troppo decorativo e concitato sovrasta i buoni propositi e la poetica condivisibile.
Il mio acuto lettore nonché inveterato visitatore della Biennale vedrà bene che mancano in questo primo excursus diversi degli artisti invitati da Ralph Rugoff ai Giardini. Non c’è alcuna volontà di escludere ciò che – fra l’altro – ritengo forse il contributo migliore a questa mostra. Ma, come abbiamo ben visto, qui si parla d’altro e non sempre d’arte, benché certamente sia l’arte a creare il casus. Non posso tuttavia fare a meno di segnalare alcune fra le prove migliori dell’ostico Padiglione delle Esposizioni.
Snocciolerò pertanto alcuni nomi che il mio fan più agguerrito potrà scovare nel bettolìo sussiegoso del labirintico polo espositivo: Cyprien Gaillard e il suo fantastico, coltissimo ologramma, Ulrike Müller e le sue eleganti forme quasi biomorfiche, Danh Vo perché è Danh Vo, Zhanna Kadyrova e la geniale reinterpretazione della ceramica da rivestimento, Carol Bove con la sua incelabile eleganza, Mari Katayama quale inquietante musa dell’incompiuto e del mostruoso portatori di una nuova estetica, Jean-Luc Moulène con il suo mondo di fantasmi informali…
Per ora concludo qui il primo itinerario riguardante la mostra curatoriale che tanto ci fa discutere e rimando le mie opinabilissime conclusioni a una seconda parte (la mostra in Arsenale) che, ne sono sicura, rimarcherà la mia tesi sugli intendimenti, furbetti e innovativi al medesimo tempo, del nostro Virgilio americano. E, come fa Dante nella sua Commedia ben più energetica e divina del percorso privo di paradisi di questa edizione, mi addentrerò ancor più nei meandri di un assunto che non tutti sono disposti ad accogliere come guida. Va da sé, scomodare Dante è già una bestemmia: a ognuno il suo peccato di orgoglio.
Caro lettore, seguimi, se avrai voglia.
2 Commenti
Inanellare torpiloqui e license poetiche non fa di uno scrittore un critico d’arte..e nemmeno uno scrittore. L’articolo è dotto e confuso… ma soprattutto noioso. E visto che alla Biennale ci siamo stati lasciami ‘criticare la tua totale inadeguatezza a parlare ..
O anche solo a commentare arte altrui.
Padronissimo di non apprezzare quanto scritto, ma . di grazia – chi mai le ha dato il permesso di darmi del tu?
Inanellare torpiloqui e license poetiche non fa di uno scrittore un critico d’arte..e nemmeno uno scrittore. L’articolo è dotto e confuso… ma soprattutto noioso. E visto che alla Biennale ci siamo stati lasciami ‘criticare la tua totale inadeguatezza a parlare ..
O anche solo a commentare arte altrui.
Padronissimo di non apprezzare quanto scritto, ma . di grazia – chi mai le ha dato il permesso di darmi del tu?