Tutto in Caravaggio è movimento e passione. Il brivido dinamico delle sue composizioni estende la propria scossa fino ai limiti del quadro, fino ai limiti dei corpi che lo abitano: le mani. Queste, quasi sempre attive, rappresentano la sublimazione dello stile energico del grande artista italiano.
Sul chiaroscuro fascino di Caravaggio si è detto molto e ancora tanto c’è da dire. Caratterizzato da una personalità controversa, fine pittore di alta committenza e violento frequentatore di bassifondi, è riuscito a trasmettere la sua inquietudine ai personaggi dei suoi dipinti. Infatti, nonostante l’inevitabile immobilità a cui il quadro sottostà, la tensione al movimento e la rappresentazione di una scena, di una messa in scena, sono peculiarità dello stile di Michelangelo Merisi da cui è impossibile prescindere. Colti sempre nel culmine dell’azione, i suoi personaggi si presentano sul limite tra realtà e finzione, sia per la mancata idealizzazione della composizione, sia per il ricorso a modelli e scale naturali. Inserita in un’atmosfera quasi sempre buia e tenebrosa, la scena si affida ad una teatralità precisa che allestisce lo spazio e i suoi protagonisti nei minimi dettagli. Proprio nella ricchezza dei dettagli credo risieda molta della grandezza di Caravaggio. Se già molto velocemente abbiamo evidenziato l’impatto che il complesso dell’opera offre all’osservazione – il chiaroscuro, la monumentalità realistica, la teatralità coinvolgente – è inevitabile che questo sia il risultato della partecipazione di tutti i suoi elementi. Come all’interno di un romanzo, ogni sfumatura della composizione caravaggesca rappresenta una porzione di testo, il verso di una poesia, il frammento di una narrazione che emerge dal confronto, dalla lettura delle immagini, dalla riflessione deduttiva. Un procedimento forse complesso, ma che restituisce l’idea della sovrapposizione di significati all’interno di un’opera, da osservare in superficie o da sfogliare invece come un’inesauribile fonte di suggestioni.
Proprio da questo sfogliare è possibile notare un passo ricorrente, quasi una firma stilistica, che ben si inquadra nel discorso trattato: il movimento delle mani. Molti dei personaggi di Caravaggio, nella maggioranza delle sue opere, impegnano le mani in movimenti ora utili, ora futili; ma pur sempre movimenti. Questo dettaglio funge da esasperazione dell’ossessione dell’artista per il movimento all’interno della scena: l’esaltazione dinamica si agita come una scossa lungo tutto il quadro, anima tutto ciò che è vivo che a sua volta anima ciò che da solo non si può muovere. Da qui la magnificazione del ruolo delle mani: dieci dita, ultime protesi dell’azione umana, declinazione finale dell’intenzione della volontà che si muove. Le mani sono le foglie dei rami che si disperdono dal tronco centrale del racconto, finiscono per nascondersi fuori dal punto focale della composizione ma allo stesso tempo la sublimano nella profondità della sua costruzione. Di un verde ancora più splendente brillano quelle foglie ancora più lontane dal centro, che si perdono nei sentieri biforcati minori e finiscono in sottilissimi e inutili rametti.
Per meglio intenderci: è nell’ordine delle cose che le mani della Giuditta cingano la spada con cui decapita Oloferne, o che il Ragazzo morso dal ramarro si lasci cogliere dal morso dell’animale. Intendo dire che quando le mani rientrano nel disegno dell’azione rappresentata, è inevitabile che queste partecipino in modo preponderante e fondamentale. L’ineluttabile consequenzialità che porta le mani a farsi strumento della riuscita narrativa dell’opera le rende apprezzabili tecnicamente, ma elevandosi a protagoniste perdono invece quel fascino di dettaglio che consente di intravedere l’aspetto più curioso di queste finezze tecniche: la gratuità. Le mani di Caravaggio che preferisco, di cui riporterò qualche esempio, sono quelle che sarebbero potute non esistere. Sono mani che compiono gesti non necessari, che rientrano nell’azione ma non ne sono indispensabili. Ornamenti che approfondiscono la scena, caratterizzano ulteriormente il personaggio, che alimentano la ridondanza segnica come cerchi nell’acqua. Potrebbero non esserci, ma spesso ci sono. E disperdono su tutta la scena quel moto inquieto che il febbricitante Caravaggio distribuiva in ogni sua creazione.
Santa Caterina d’Alessandria
Martire cristiana o vittima dei cristiani? Sulla veridicità delle fonti che vedono Santa Caterina morta martire davanti all’imperatore romano Massenzio, irato per la volontà della giovane di non sposarlo rinnegando la sua devozione a Dio, molti studiosi mantengono le riserve. Ecco allora che la ruota dentata (strumento di tortura con cui l’imperatore aveva tentato inizialmente di uccidere invano la Santa), la spada (oggetto con cui Massenzio riuscì, almeno secondo la storia, ad eliminarla), il cuscino e il mantello (simboli di regalità) e la palma (simbolo del sacrificio) vengono messi in dubbio da quell’indugiare languido del dito indice sulla lama insanguinata. Caravaggio, impossibilitato dal controllo ecclesiastico a deviare dall’iconografia classica, può aver inserito un dettaglio fuorviante, che porta l’immaginazione verso deduzioni fantasiose ma interessanti. Forse Santa Caterina sta accarezzando la spada, la sta indicando, vuole suggerirci una certa familiarità con l’arma; forse, come molti studiosi ritengono, dietro Santa Caterina si cela la figura di Ipazia, matematica e filosofa greca uccisa da un gruppo di fanatici cristiani. Un semplice gesto delle lunghe dite placide, che sembrano però urlare complicità e non timore, minaccia e non martirio, l’emergere della filosofia sulla religione (o almeno quella della Controriforma). Caravaggio ha voluto forse indicarci l’aspetto che più apprezza di questa figura misteriosa: il coraggio, la perseveranza, il sacrificio. Aldilà del Cristianesimo, all’interno dell’uomo.
Marta e Maddalena
Marta rimprovera la dissoluta Maddalena, che alla veemenza della donna reagisce con l’immobilità di chi vede scalfita la propria indole peccatrice. Le mani di Marta splendono della luce divina della conversione e offrono alla Maddalena l’opportunità di pentirsi e quindi redimersi. L’ex prostituta tiene vicino a sé tutti gli elementi della vanitas di cui era portatrice: lo specchio, il pettine, il vasetto d’unguenti. Sembra che, anche se lentamente e a malincuore, si stia affrancando da questi oggetti e con essi dal suo passato, tanto che con la mano sinistra sembra infatti lasciare, forse indecisa, lo specchio che le restituisce sempre la sua immagine come un sicuro conforto. Al contrario, con la mano destra stringe qualcosa al petto, regge imperterrita tra il pollice e l’indice un sottile e fragile fiore. Una piccola reliquia che porta con sé il profumo di un tempo volato via, che si è lasciato dietro il fascino malinconico di una bellezza che tutto poteva ottenere. Tranne la grazia divina. E anche ora che le parole di Marta le stanno indicando la via, lo spirito di Maddalena si aggrappa al conforto delle apparenze, del mito di una vanitas da cui non riesce a staccarsi.
San Francesco riceve le stimmate
«Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture»
Vangelo di Matteo 10,9
Se l’iconografia classica vuole la rappresentazione del momento evangelico ritratto nel culmine della manifestazione divina, allora l’estasi di San Francesco dovrebbe immortalarlo nel momento in cui viene investito dalla luce sacra. Dettame contenutistico che sembra in linea con la passione di Caravaggio di fermare la scena all’apice del dramma, ma che l’artista questa volta tradisce nella primaria intenzione di sovvertire il canone prestabilito. Così il Santo si presenta nell’insolita posizione semi-orizzontale, scosso dall’intenso momento appena vissuto. Ha perso i sensi: gli occhi, di solito rivolti al Signore, sono chiusi; le membra, prive di forze, giacciono accasciate a terra. A reggerlo vi è solamente l’angelo, che si premura di un dettaglio superfluo, ma a nostro modo interessante. Nell’interrompere la caduta di Francesco, la creatura celeste gli pone la mano sinistra dietro la schiena, mentre lascia passare la destra attorno alla vita e afferra il cingolo di corda stringendolo con la mano. Le dita avvolgono la cintura in un gesto premuroso, non richiesto, ma in grado di aggiungere dinamismo nell’azione che si sta spegnendo, riverberando il brivido della scossa estatica. Anziché bloccarne semplicemente la caduta, l’angelo trova lo spazio nel concitato istante per stringere il cingolo sottolineando un’intenzione che non può passare inosservata. Raccogliamo allora la suggestione e sciogliendo i nodi della cintura francescana ricordiamo che ognuno di essi rappresenta un voto della Professione Religiosa: l’obbedienza, la castità e la povertà. L’angelo ci sta allora ricordando la prova estrema, per quanto umana, che Francesco sta affrontando: la rinuncia ai beni terreni, materiali, un sacrifico che si spinge nell’eloquente abbandono non solo di una cintura, dove veniva conservato il denaro, ma anche del cuoio a favore dell’umile e ruvida corda. L’assenza dell’aureola sottolinea una volta ancora il carattere umano della prova di San Francesco, la cui figura si fa ancora più prossima al Cristo – l’elemento umano della trinità – nel presentare i segni sul petto e non sulle mani.
Presa di Cristo nell’orto
Uno scatto frenetico da destra a sinistra ad opera dei soldati, un improvviso stop quando nella scena irrompono immobili Giuda e Cristo, ravvicinati, quasi uniti, e un nuovo scatto, dettato dal panico, di un apostolo, forse San Giovanni, lanciato a chiedere aiuto. Ma di aiuto Gesù non ha bisogno, anzi nel turbinio di un momento cruciale della sua vita e del racconto evangelico si immobilizza nella sicurezza della sua comprensione lucida e ampia. Non solo, la certezza del percorso intrapreso e della destinazione che lo attende lo porta a distendere ogni resistenza e ad incrociare le dita delle mani come a legarsi da solo, un auto-ammanettamento. Un gesto rassegnato che convoglia la triste tranquillità con cui Cristo ha da tempo accettato il proprio destino e che dunque anche ora, all’inizio della fine, si concede solo una linea di amarezza a solcargli il viso. Ma le mani, sicure, si stringono nella prigionia che lo condurrà al Padre.
Deposizione
L’ultima e più inutile digressione sulla mano è da operare all’interno di un’opera strabordante di finezze tecniche: i volti, le rughe, i solchi, le forme plastiche di ogni personaggio sono rese alla perfezione nell’ambiente scuro che non azzera però le sfumature di ognuno. Un condensato potente di emozioni controllate, innestate in una composizione dove ognuno ha il suo ruolo e dove tutti vivono di una personale capacità di presenziare nel quadro. Nella vastità di dettagli propedeutici al racconto della deposizione del Cristo, quello della mano di quest’ultimo rimane apprezzabile nella sua sublime marginalità. Osserviamo la scena come una ripida discesa che parte dalle braccia alzate di Maria di Cleofa, prende velocità nei volti chinati delle due donne per precipitare poi nelle schiene chinate dei due uomini e naufragare definitivamente nel corpo esanime di Gesù. Il definitivo abbandono della vita non si esaurisce nella sua testa reclinata, bensì nel braccio molle che arriva a sfiorare la pietra tombale. Qui le dita non partecipano però al cedimento complessivo, scuotendosi in un ultimo brivido di vita: l’indice inciampa infatti sulla lastra e rimane incagliato, lasciando scivolare il medio solitaria sul lato della tomba. Un gesto forse insignificante, che satura però la densità di un movimento complessivo che si agita dalla sommità dell’opera, accelera nella composizione discendente e finisce rallentando, dolcemente, in un ultimo meraviglioso, insignificante, malinconico saluto alla vita.