Riflessioni a margine della figuraccia delle Nazioni Unite, il cui sito ufficiale indicava il capolavoro di Picasso come denuncia dei “crimini dei repubblicani durante la guerra civile spagnola”, anziché dei nazifascisti
Per ben due anni il sito ufficiale dell’ONU ha sostenuto che in Guernica, la celebre, grandissima tela dipinta da Pablo Picasso nel 1937, vengono denunciati “i crimini dei repubblicani durante la guerra civile spagnola”. Solo ora, grazie ad una petizione online, il 19 settembre l’ONU si è scusata per questo “terribile errore”: ma in ogni caso al momento la pagina web con il testo revisionato risulta ancora inaccessibile. Una delle poche cose certe nella storia dell’arte è che Guernica, semmai, rappresenta l’orrore dei crimini nazifascisti sulla popolazione civile. La clamorosa gaffe innesca però una serie di riflessioni e interrogativi: l’arte dovrebbe limitarsi a fare ciò che sa fare meglio? Limitarsi a produrre piacere ed evitare di mascherarsi da guerriera? O forse è proprio quando cadono le bombe che ci rendiamo conto della necessarietà di uno dei suoi volti più duri?
Nel corso della guerra civile spagnola, il banco di prova del secondo conflitto mondiale, una granata franchista apre una breccia nel Museo del Prado, quando la notizia arriva a Picasso l’artista si sente aggredito personalmente. Il grande avanguardista iconoclasta, il padre del Cubismo improvvisamente vuole difendere i grandi maestri del suo passato (specialmente Goya). Così quando gli offrono l’incarico di direttore del museo, accetta senza esitare: è un segnale, un modo per schierarsi dalla parte della Repubblica e fare il proprio ingresso sulla scena politica. Nemmeno il geniale bohemien che per tanti anni si era disinteressato degli eventi politici e sociali, preoccupandosi solo di sé stesso e della sua arte, può sfuggire alla storia, e ora, che lo voglia o no, i suoi pensieri e le sue emozioni sono ormai concentrati sulla guerra spagnola. Dopo il suo rientro a Parigi, la Spagna tornerà a bussare alla sua porta e quando i responsabili del progetto del padiglione spagnolo all’Esposizione Internazionale lo invitano a partecipare, in quanto artista politicamente impegnato, Picasso accetta pur chiedendosi per mesi cosa mostrare.
Sono le 4 di pomeriggio nel villaggio di Guernica, nei Paesi Baschi (da sempre fieri della loro identità), quando compare un puntino nero nel cielo, un aereo tedesco della Luftwaffe, che quasi con indifferenza lascia cadere sei bombe, seguito da uno stormo di aerei tedeschi e italiani. In totale più di 5mila bombe vengono lanciate sulla cittadina indifesa riducendola in un quadro cubista, in un cumulo di macerie in fiamme e di corpi scomposti senza vita (sono più di un migliaio i morti e migliaia i feriti). Non c’è niente a Guernica che possa essere considerato nemmeno lontanamente un obbiettivo militare, ciò che rende speciale questo attacco è la brutalità e la chiarezza del suo messaggio: “questo è ciò che possiamo fare e questo è ciò che faremo contro coloro che ci si vogliano opporre”. La notizia fa il giro del mondo, e il dettagliato articolo di Steer, sul Times, con la foto dell’inferno notturno da lui stesso scattata, si imprime a fuoco nella mente di Picasso. Non a caso, infatti, malgrado il massacro sia avvenuto di giorno, egli staglierà la sua Guernica sullo sfondo della notte: la notte buia del secolo della guerra, che contribuirà a fare dell’opera la “Cappella Sistina del Novecento”, paradossalmente proprio per l’assenza di colori cangianti.
Nel suo studio parigino Picasso concentra l’attenzione sull’impresa più ardua che abbia mai tentato: raccontare la verità, trascendendo il semplice fatto di cronaca. Avrà così luogo “il cubismo con una coscienza”. Se prima distruggeva le icone, ora mosso da un’urgenza di ordine più elevato, deve diventarne il creatore. Tutto quello che la sua arte e la sua vita hanno toccato deve farsi visibile in questo momento decisivo: l’eccitazione per la contemporaneità, la passione per lo stravolgimento delle regole e delle coscienze, l’ossessione per i maestri del passato, le sofferenze della sua vita privata. Ha bisogno di tutto l’aiuto possibile, e una complice sta per entrare in scena. Picasso la incontra in un caffè di Parigi e non può che rimanerne colpito: è un’affascinante e colta fotografa surrealista, il suo nome è Dora Maar, e sarà una sua amante appassionata, ma soprattutto una partner creativa. Dora diventa una presenza costante nel suo studio e la fotografa non ufficiale dell’artista, che lo ritrae durante la gestazione di Guernica.
Picasso comincia il suo capolavoro il 1° maggio 1937, tracciando bozzetti sommari, pensieri che corrono più veloci della sua mano, in cui ricorrono i simboli ormai da tempo radicati nella sua psiche: il cavallo ferito, il grande toro, il portatore di luce, volti di donna stravolti e segnati da fiotti di lacrime. Nelle prime versioni del dipinto trovano posto anche la speranza e la resistenza, ma con l’artista sempre immerso nell’opera quei flebili segni scompaiono quasi del tutto, schiacciati dalle tinte fosche dell’inumana tragedia. Nelle prime versioni, ad esempio, dalla ferita del cavallo spuntava un piccolo Pegaso, il simbolo mitologico secondo cui l’arte e la poesia nascono dalle ferite, come a dire che anche dal sangue può scaturire il bene. Nella stesura finale il cavallo presenterà solo una fessura a losanga su un fianco, nel punto esatto in cui si incrociano le diagonali della composizione. Nei bozzetti il guerriero caduto è più grande, più forte, e sulla testa ha l’elmo degli eroi classici, ma alla fine Picasso lo riversa sulla schiena con la bocca spalancata in un urlo strozzato, incapace di muoversi e senza l’elmo. Se fosse un bravo partigiano Picasso dovrebbe far brillare qualche evidente segno positivo fra le pieghe della carneficina, ma non se la sente di lasciarsi andare ad un miope ottimismo. I segni della redenzione sono ridotti al minimo ma sono comunque significativi: la margherita che nasce dalla spada spezzata, la stigmate sulla mano del guerriero paragonabile a quella del Cristo martire, la candela stretta con forza.
Una luce di segno opposto è uno degli elementi che lega Guernica alla Fucilazione di Goya (1808): anche qui la rappresentazione degli orrori della guerra e non più della sua eroicità, anche qui ricorre il tema di un’umanità martirizzata, dalle braccia aperte come sulla croce, anche qui, soprattutto, la luce da simbolo del bene si fa simbolo del male. In tutta la tradizione artistico-letteraria la luce ha sempre illuminato la bellezza e la dignità del sublime, ma non qui, qui la luce è lo strumento dello spargimento di sangue, è il bagliore sinistro in cui gli uomini-macchina eseguono il loro raccapricciante lavoro, eseguendo gli ordini. Osservando Guernica appare evidente l’energia vorticosa che attraversa il quadro, che attira verso l’alto la piramide dei corpi informi, ma verso che cosa si protendono? Verso un occhio malvagio, al cui interno brilla la fredda e crudele luce di una lampadina elettrica, non è la luce del progresso, ma quella dell’angelo sterminatore, il riflettore dello squadrone della morte, il tracciante di un bombardiere, la lampadina nuda della cella di tortura. Ad essa si contrappone la luce della candela, tenuta in alto dalla bellezza di un braccio eroicamente teso: è l’epica battaglia fra il bene e il male, ma è anche la battaglia fra l’arte e la guerra.
Quando termina il dipinto Picasso sa di aver fatto l’impossibile, di aver creato un’opera che si immerge in profondità negli incubi del mondo contemporaneo, fatti di fuoco e di grida lancinanti da cui non c’è scampo. È coraggiosamente innovatore, come sempre del resto, eppure è anche capace di portarci indietro, nella tragedia della storia; è artefice di una commozione cubista, ma anche di realizzare un monumento nel senso antico e classico del termine, con le sue donne dolenti, accostate alla piramide della morte, che richiamano le innumerevoli Maddalene della tradizione e le donne dell’Incendio di Borgo di Raffaello, con le braccia levate al cielo.
Uno dei più significativi omaggi ai capolavori del passato, però, è rappresentato dalla figura del cavallo che fende l’aria col suo nitrito spettrale e con la sua lingua tagliente come una lama, in gran parte ispirato a quello che campeggia nel Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis a Palermo (eseguito nel 1446, per Palazzo Sclafani, da un pittore anonimo di straordinaria eleganza e potenza espressiva). Che Picasso debba aver guardato a questo precedente risulta piuttosto evidente, pur senza essere degli esperti: anche qui il cavallo impennato – stavolta scheletrito, ma dalla medesima angolosità delle linee aguzze e spezzate – sembra lanciare un urlo lancinante (più che un nitrito). Se si considera poi che quell’anonimo pittore operava nella Sicilia aragonese, e che quindi la sua cultura era intessuta delle contaminazioni franco-fiamminghe e borgognone così come di quelle catalane, si potrebbe tracciare un suggestivo fil rouge all’interno della tradizione spagnola: l’eco di quell’urlo sembra infatti riverberarsi nel “sonno della ragione che genera i mostri” che animano la Quinta del sordo di Goya, fino a deflagrare in Guernica in tutta la sua massima potenza. Al di là di un immediato confronto stilistico, inoltre, sappiamo che Picasso conosceva l’opera grazie alla testimonianza di Guttuso, che in un saggio dal titolo La grande eguagliatrice siciliana (1986), dedicato proprio all’affresco di Palermo, scrive fu l’amico stesso a confidargli che il Trionfo della Morte aveva esercitato un forte influsso su di lui anche solo grazie al tramite indiretto delle riproduzioni.
Guernica sarà pure fatta di pittura ma ha la presenza della pietra, non la si può bombardare, non la si può distruggere. È un dipinto che compie un miracolo: nonostante le quotidiane immagini di distruzione e violenza ci fa sentire il dolore, lo fa entrare nella nostra pelle. Questo è il vero compito della grande arte: interrompere il pigro scorrere delle nostre esistenze. La pigrizia contro cui Guernica si scaglia è il virus che infetta il tempo di Picasso come il nostro, è l’abitudine di accettare il male, di rimanere indifferenti di fronte al massacro, perché lo abbiamo già visto e non vogliamo vederlo più, preferendo evadere in un’arte fatta di mero piacere. Ma Guernica non è stata affatto creata per intrattenerci, bensì per rimuovere il tessuto cicatriziale e farci sanguinare di nuovo. Dunque ecco cosa può fare l’arte quando cadono le bombe: può ricordarci di riannodare i fili della nostra umanità…
L’Esposizione Internazionale di Parigi e il mondo dell’arte sono traumatizzati da Guernica? In realtà non proprio. Le reazioni sono di una correttezza devastante, più che turbati i critici rimangono perplessi di fronte al dipinto; il pubblico di sinistra, accorso dalla Spagna, e non solo, cerca invano proletari muscolosi atteggiati in pose eroiche o cattivi raccapriccianti dai volti truci; un critico definisce il quadro come “poco più che la descrizione di un turbamento interiore“, il che, ovviamente, è vero solo in parte. Due anni dopo l’Esposizione Franco ha preso il potere il Spagna e i totalitarismi dilaniano l’Europa, a quel punto Guernica non è solo un’opera d’arte, ma una profezia. Nel 1944, dopo quattro lunghissimi anni di guerra, Parigi viene liberata dall’occupazione nazista e Picasso può finalmente incontrare il pubblico, che ormai lo adora e che si accalca nel suo studio desideroso di conoscere la gestazione di Guernica. Forte della sua forza simbolica, il dipinto viene esposto a New York, dove per tre decadi irradia la sua forza morale dalle pareti del Museum of Modern Art, dimostrando come Picasso, proprio l’uomo da cui nessuno se lo aspettava, abbia notevolmente contribuito a salvare l’arte contemporanea dalla sua maledizione di dover essere sempre leggera e sempre nuova.
Nel 1981, dopo la morte di Franco e l’avvento della mai terminata transizione spagnola, Guernica torna a casa, a Madrid, passando prima per il Casón del Buen Retiro (ovvero il Salone da ballo dell’antico Palazzo Reale), poi per il Museo del Prado, infine per il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, dal 1992. Mai oltraggio maggiore per la memoria di Picasso che essere ospitato nel Museo dedicato a una regina deposta dalla Repubblica… Inoltre non credo nemmeno che l’artista avrebbe troppo gradito la soluzione espositiva con cui Guernica è stata cristallizzata nella memoria collettiva. Bisognerebbe infatti ricordare che originariamente venne pensata come un’opera site specific, che occupava in altezza e larghezza tutta la parete perimetrale del porticato d’ingresso al Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale del 1937, costituendo non a caso la prima e l’ultima cosa che avrebbero visto i visitatori all’interno di un ambiente dinamico e chiassoso, all’insegna della contaminazione delle varie arti: teatro, collage fotografici, artigianato, poesia, danza ecc.. Il tutto con il chiaro scopo di rafforzare ancor più quel messaggio di resistenza contro le violenze nazifasciste già racchiuso in Guernica in tutta la sua icastica evidenza. Purtroppo quello della mancata contestualizzazione dell’opera nel rispetto del suo primigenio concept espositivo è un aspetto troppo spesso tralasciato dalla manualistica tradizionale, così come dalla divulgazione sul web, e il risultato è che nessuno sembra fare troppo caso a quanto sia ridicolo, in realtà, trovare Guernica nel Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía alla stregua di un qualsiasi altro quadro di una certa dimensione, appeso educatamente sul muro, come in ogni galleria che si rispetti e senza nemmeno un riferimento fotografico all’Esposizione del 1937 (ad esempio si sarebbe quanto meno potuto sfruttare lo splendido reportage di Dora Maar, anche in nome del sodalizio umano e artistico che la legò a Picasso…).
Picasso fortunatamente, essendo morto nel 1973, non vedrà l’ultima e definitiva destinazione della sua Guernica, ma noi tutti abbiamo visto la storia cambiare la geografia molte volte nel XX secolo. Basti pensare alla fine dell’Impero Austro Ungarico e dell’Impero Ottomano, all’URSS e alla Jugoslavia dissolte, al III Reich distrutto, alla Germania prima divisa poi riunificata, alla Cecoslovacchia divisa, tanto per dire.. Chissà che la storia e la geografia non ci restituiscano presto una Spagna Repubblicana al posto di una delle ultime monarchie d’Europa, del resto è quello che avrebbe voluto il nostro artista…
Floriana Boni