Sua maestà la materia. Posata e plasmata. In potenza. In bilico tra terra e luce, espansa nello spazio, impreziosita da arie e aure rinascimentali. La migliore ricerca su di essa, dal dopoguerra a oggi, propagata per i saloni rovereschi della Rocca di Senigallia. Saturandoli, arricchendoli. Il tutto condensato nel titolo della mostra andata in scena dal 6 settembre al 27 ottobre, “Materie prime. Artisti contemporanei italiani tra terra e luce”, e nel catalogo realizzato per l’occasione, summa che esplica e approfondisce il progetto curatoriale ampliandone maggiormente la portata e il respiro. L’esposizione, a cura di Giorgio Bonomi, Francesco Tedeschi e Matteo Galbiati, col coordinamento organizzativo di Giorgio Ferrarin, ha visto la collaborazione di vari enti. Primo fra tutti il Comune di Senigallia, “Senigallia città della fotografia”per il materiale fotografico confluito nel catalogo, il Museo Comunale d’Arte Moderna dell’Informazione e della Fotografia e il Polo Museale delle Marche. Protagonista indiscussa e quinta teatrale per le opere in mostra, la Rocca Roveresca funge da trait-d’union fra due temporalità distanti. La sfida è accogliere le sperimentazioni materiche di artisti nazionali e internazionali contemporanei negli ambienti e nelle nicchie cinquecentesche.
La Rocca, architettura-testimone del periodo rinascimentale marchigiano, fu progettata da Lorenzo Laurana per volere del Duca Federico da Montefeltro (1422-1482), così da suggellare il matrimonio della figlia Giovanna con Giovanni della Rovere. Col passare delle dinastie la Rocca assunse nei secoli l’attuale doppia anima: quella nobile, con portali tardo quattrocenteschi in marmo d’Istria, e quella rustica. Non solo i duchi dunque, ma anche i materiali trovano in questo contesto, il luogo ideale in cui coniugarsi. Il tema principe ospite della Rocca è la materia dunque e come essa divenga opera d’arte tramite la lavorazione mediata dall’artista. Materia, dal latino “mater”, madre, viene per Aristotele intesa come “il primo comune sostrato di ciascuna cosa e ciò da cui […] un qualcosa è generato”. Il filosofo greco intendeva con ciò la possibilità intrinseca custodita nella materia di poter essere qualcosa di determinato, che ha una forma. Dagli anni ’50 del Novecento in poi, nel periodo che si usa definire “Informale”, la materia si fa arte senza che l’artista intervenga su di essa in modo visibile e consistente. Il materiale si fa auto significante, cioè carico di significato in sé e che non necessita di alcuna forma di mediazione artistica.
Lo scatto in avanti indotto dall’arte Informale, si lascia la modernità alle spalle e lo fa guardando alle potenzialità degli strumenti tecnologici (radio, televisione, viaggi nello spazio) con un occhio che predilige nuovi medium, quelli fotografici e cinematografici. In anticipo sui tempi e consapevole delle conseguenze provocate dall’uso di materiali eterogenei come forma di accettazione passiva del reale, Umberto Boccioni (Reggio Calabria 1882 – Verona 1916), in una lettera al collega Papini scrive: “L’arte non è che materia prima elaborata, ma è proprio questa materia elaborata fino al dissanguamento e chiamata ARTE che noi ci rifiutiamo di accettare a priori, e vogliamo creare delle opere che siano accertamenti di realtà, e soprattutto di nuove realtà, non ripetizione tradizionale di apparenze”. Sulla scia delle sperimentazioni artistiche informali, Giuseppe Uncini (Fabriano 1929 – Trevi 2008) trova nel cemento la materia che lo affascina maggiormente. Un lavoro ossimorico, carico di rimandi ai famosi Sacchi di Burri, in cui Uncini “cuce” col ferro il cemento, compiendo un atto sartoriale e di muratura insieme. Il ferro è il materiale protagonista dell’arte di Pino Spagnulo, che lavora argilla e metallo con l’ausilio del fuoco e tramite esso trasforma, come un demiurgo, la materia in materiale. Arcangelo Sassolino (Montecchio Maggiore, Vicenza 1967) gioca con la materia portandola al limite massimo. La deforma, la schiaccia, la comprime fino al momento prima che questa ceda. È il caso di I.U.B.P. (2018), lo pneumatico deformato da una fascia rossa e stretto nella morsa di una pressa d’acciaio. Qui i materiali sono due, la gomma deformata e l’aria, materiale a sua volta, compresso. Renata Boero (Genova, 1936) si lascia ispirare dalla natura e dai suoi materiali. La carta, a lei cara, diventa terreno di sperimentazioni cromatiche e temporali. I pigmenti naturali e il tempo sono per Boero i materiali prìncipi della sua arte.
Questi sono solo alcuni degli artisti –quindici in tutto- nati fra gli anni ’20 e ’60 del secolo scorso, chiamati ad interpretare i materiali in modi singolari e a dialogare con gli spazi cinquecenteschi della Rocca. A chiudere l’esposizione, un catalogo rosso fiammante -definito dai curatori libro autonomo-, riporta non solo puntuali informazioni sia sulla Rocca Roveresca sia sulla poetica degli artisti, ma anche le fotografie di un allestimento che non deve andare perduto con la fine dell’evento e che omaggia la bravura di chi, consapevolmente, ha lasciato spazio alla voce degli artisti, valorizzando al contempo contenitore e contenuto.