La fondazione intitolata al celebre fotografo espone per la prima volta gli approfonditi reportage realizzati in Cina da Henri Cartier-Bresson a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, all’indomani della nascita della Repubblica Popolare e poi per documentare i suoi sviluppi maoisti.
Negli spazi di Montparnasse a Parigi, 154 fotografie e numerosi documenti d’archivio raccontano la Cina che fu, e che per certi aspetti Xi Jingping sta cercando di riesumare. Fino al 2 febbraio 2020. Pensi alla Cina e subito si affacciano immagini di metropoli irte di grattacieli, autostrade e ferrovie modernissime, tecnologia diffusa e ricchezza emergente. Ma settanta anni fa, che in prospettiva storica non sono un arco così lungo, il Paese aveva un volto diametralmente opposto: arretrato, prevalentemente rurale, dilaniato da decenni di guerra e guerra civile, il compito che attendeva il nuovo leader Mao Tse Tung era immane; far progredire quello che era anche allora il Paese più popolato al mondo e romperne l’isolamento internazionale. Della Cina, infatti, poco si sapeva in Europa, ma in quella fine di novembre del 1948 la caduta dei nazionalisti appariva imminente sotto i colpi della guerriglia comunista.
La rivista americana Life, fra le più quotate in fatto di copertura di eventi di portata mondiale, incaricò Henri Cartier-Bresson di svolgere un reportage di documentazione degli eventi, ma con lo scopo anche di carpire gli aspetti più remoti di quella società colta in un momento di svolta epocale. In dieci mesi di permanenza in Cina, dal dicembre 1948 al settembre dell’anno successivo, Bresson percorse il Paese in lungo e in largo, dalle città alle campagne, documentando gli eventi politici ma soprattutto raccontando un popolo con la sua storia e le sue tradizioni. Ecco allora offrirsi al suo obiettivo la Pechino dei caratteristici quanto affascinanti hutong, ovvero i vicoletti della città vecchia (oggi purtroppo sempre più rari, distrutti dalle ruspe speculatrici) che si snodavano fra case basse in mattoni e legno, sfioravano piccoli cortili alberati e silenziosi, ed erano scrigno di una vita operosa, legata a un passato romantico da oleografia ottocentesca. Ce ne restituisce il sapore l’obiettivo di Bresson, che si avventura in questi vicoli cogliendo lo scorrere di un’esistenza certo povera, eppure placida, votata all’operosità quotidiana, fra piccoli commerci e lavori manuali. E ancora, gli ultimi eunuchi ancora in vita, ormai fuori servizio ma testimoni degli antichi splendori imperiali.
Già all’epoca Pechino non era la sola grande città cinese, Shanghai e Nanchino rivestivano una certa importanza; nella prima, il maestoso Bund con gli imponenti edifici coloniali, affascina Bresson per il suo brulicare di persone (era allora la città più popolosa del Paese, con cinque milioni di abitanti), così come per il suo porto da cui migliaia di cinesi ogni giorni fuggivano dalla guerra civile; accanto alle insegne della Coca Cola, spiccano per contrasto i carri di masserizie che i profughi caricano sulle navi in attesa, molte delle quali dirette verso gi Stati Uniti. E contemporaneamente, il porto non cessa la sua attività commerciale essendo all’epoca Shanghai uno dei più importanti centri di smistamento del cotone da esportare. Bresson racconta due storie, due volti della città, così come della Cina, fra instabilità, resistenza, dignità e povertà.
Ancora in ambiente urbano, Bresson entra nella realtà quotidiana della vivace Hangchow, che all’epoca era un tradizionale centro di pellegrinaggio buddista ma anche meta di viaggi di piacere per migliaia di cinesi, catturando le cerimonie sacre nei templi, ma anche la mondanità delle attività commerciali, delle taverne, di astrologi e veggenti, che fanno delle strade dei veri e propri teatri a cielo aperto.
Ma quella era ancora la Cina della guerra civile, e la presenza dell’esercito nazionalista nelle città è documentata da Bresson, in particolare a Pechino. Tuttavia, pur senza documentare i combattimenti, che avevano luogo in zone assai lontane, il fotografo entra nella tragedia della guerra documentando la questione dei profughi; ce ne sono migliaia a Shanghai, in attesa di partire, costretti a vivere su piccole barche di fortuna, lungo il Fiume delle Perle, nella zona di Soochow Creek, assiepati in migliaia in spazi ristretti, in attesa di un incerto avvenire. E ancora, le imbarcazioni stipate all’inverosimile di persone in fuga disperata erano assai comuni così come i naufragi, il più grave dei quali nel dicembre del 1948, al largo di Shanghai, che causò 3.000 vittime.
Bresson avvertì non solo la necessità di raccontare un popolo, ma anche l’urgenza di catturare il momento storico di passaggio da una fase politica a un’altra, e lo fece adottando il punto di vista di quello stesso popolo: fissò così sulla pellicola singole espressioni di incertezza, di speranza, di paura, di tristezza, di persone di vari ceti: mercanti, impiegati, mendicanti, operai e contadini. Un affresco sociale di straordinaria bellezza.
L’occhio attento di Bresson coglie la fine imminente del governo nazionalista di Chiang Kai-shek (poi fuggito a Taiwan) anche nella febbrile corsa ai metalli nobili che sempre accompagna, in ogni epoca e in ogni Stato, periodi d’incertezza politica: la ressa davanti alle banche per acquistare oro, e gli scambi febbrili, al mercato nero, di antiche monete d’argento imperiali.
Pochi giorni prima della proclamazione, da parte di Mao, della nascita della Repubblica Popolare Cinese, Bresson lasciò il Paese. Ma vi tornò dieci anni dopo, ancora su incarico di Life, per documentare i cambiamenti avvenuti con il nuovo corso. Troverà un Paese molto diverso, a cominciare dai controlli di polizia: se il primo viaggio poté svolgersi in piena indipendenza di spostamenti, adesso Bresson è costantemente seguito da una “guida” impostagli dal Partito Comunista, incaricata anche di autorizzare o meno questa o quella fotografia. Bresson trovò un Paese in pieno cambiamento sociale ed economico: i grandi cantieri per le infrastrutture, a cominciare dalle dighe per la produzione di energia elettrica necessaria al Grande Balzo in Avanti enfaticamente teorizzato da Mao, le sfilate dell’esercito e dei civili in occasione dell’anniversario della Repubblica, i quotidiani addestramenti della milizia popolare, le conferenze d’indottrinamento del popolo; si scopre insomma una società retta dal totalitarismo, tesa nell’immane sforzo di modernizzare un Paese ancora arretrato. Sforzo che vide lo sfruttamento di decine di migliaia di ex contadini utilizzati come manodopera nei grandi cantieri statali, inurbati a forza nei nascenti centri industriali; a fianco di questa strategia di “ingegneria sociale”, l’omologazione del pensiero, in modo da plasmare un popolo e spingerlo verso l’obiettivo comune. Una politica applicata con durezza, anche alla luce del difficile contesto in area comunista seguito alla destalinizzazione, mai accettata da Mao, che per questo rimase isolato sullo scacchiere mondiale almeno fino ai primi anni Settanta.
Ma documentare la Cina, per Bresson significò entrare nelle vicende di un popolo e nel suo sentire, nella vita quotidiana e negli sguardi delle persone: stante anche questa volontà di ricerca antropologica e sociale, il reportage di Bresson inaugurò un nuovo metodo di lavoro, meno basato sugli eventi e più attento a cogliere aspetti “poetici”, immateriali, spirituali, delle persone, bilanciando la ricerca con le esigenze compositive della fotografia., inaugurando di fatto una nuova stagione per il fotogiornalismo.
La Cina che conosciamo oggi cominciò a formarsi nell’ottobre di settanta anni fa, in mezzo a problematiche vaste e complesse, a fasi politiche cariche di tensione interna, a sforzi immani di lavoro su larga scala per trasformare un territorio sin lì agricolo. Quelle origini, le ha fotografate Bresson.
HENRI CARTIER-BRESSON
CHINE, 1948-1949 | 1958
DU OCTOBER 15, 2019 AU FEBRUARY 2, 2020
Fondation Henri Cartier-Bresson
79, rue des Archives
75003 Paris
* Henri Cartier Bresson Vetrina di un negozio di pennelli Pechino dicembre 1948 © Fondation Henri Cartier Bresson Magnum Photos