Una vetrina che mostra ma che non vende nulla. Uno schermo sempre acceso a offrire visioni incessanti. Per i nottambuli, per chi passa distratto e per chi si ferma a guardare, per i voyeur, per chi è attento e per chi è indifferente.
È a Roma, in via del Consolato 12, questa vetrina, frenetico museo in miniatura, laconico e misterioso, un motel dell’arte aperto 24/7, sempre acceso a mostrare il suo one piece. Spunta nel 2013 e non tarda a farsi notare: a pochi anni dalla sua apparizione viene selezionato da The Indipendent, il progetto di ricerca del Museo MAXXI che identifica e promuove le realtà indipendenti dell’arte contemporanea sul territorio nazionale e internazionale.
Neon, poster, manifesti, piante, sacchi della spazzatura, persone: dentro la scatola trasparente può transitare qualsiasi cosa. Al suo interno le installazioni si alternano, forse nottetempo, a ritmi imprevedibili: più volte alla settimana, o da un giorno all’altro, appaiono e scompaiono senza preavviso alcuno. Sono manifestazioni provvisorie, precarie, blitz poetici; allestimento e smantellamento sono una marea che va e viene, imponderabile. L’ecosistema vetrato non nasconde una certa attitudine alla dissipazione, al consumo continuo e un po’ folle di materiali e di visioni, che si regalano gratuitamente al passante – meglio se solitario, meglio se colto di sorpresa.
La rosa è senza perché, fiorisce in quanto fiorisce e non si chiede chi l’ammirerà. Questa la filosofia della vetrina: a muovere il progetto è un’esigenza “talmente anti-commerciale e anti-sociale da essere mistica”; alla Vetrina infatti non interessa “costituirsi una storia, una carriera” – spiegano i fondatori. Dietro al progetto sono tre personalità diverse – Gianni Garrera, traduttore di Kierkegaard e insegnante di Estetica teatrale, Giuseppe Garrera, collezionista, ricercatore di documenti e curatore, Carlo Pratis, gallerista – accomunate dall’interesse per le ricerche d’avanguardia e dalla voglia di mettere in pratica “un operare che assumesse una dimensione più paradossale, anche senza senso.”
Prima a sorgere è la necessità condivisa di “uno spazio assoluto, una sorta di vicolo cieco, sempre attivo, ma senza alcun rapporto con un pubblico”, mentre soltanto in seguito è identificato il luogo che è esso stesso un manifesto, scelto proprio perché dimesso, segnato dal tempo, dal carattere apertamente anti istituzionale, agli antipodi dei luoghi canonici dell’arte. Ad agire all’interno dello spazio ristretto con interventi site-specific sono artisti, performer, ma anche filosofi e poeti. Nella Vetrina c’è infatti un’attenzione speciale alla parola, superiore secondo i fondatori a tutte le manifestazioni artistiche, strumento ideale di propagazione della “lotta etica e poetica” e di forme ideali di anarchia. Ecco allora spiegato il frequente palesarsi, dentro le pareti di cristallo, di proclami, frasi perentorie, provocatorie.
L’attitudine della Vetrina è punk: programmaticamente distaccata dalle dinamiche commerciali, sociali e fruitive del mondo dell’arte, è un non luogo che prescinde dalle relazioni con l’esterno. La vera bellezza risiede nel suo darsi gratuito, ma che ci nega ogni possibilità di partecipazione (anche a battere con le nocche sui vetri, non succederà nulla). Nel suo non essere mai ammiccante e nel suo esistere – senza dispiacersene affatto – come “solo e non più che un’esistenza sprecata”.