Del sake, in Italia, non si dovrebbe più parlare come di uno sconosciuto o di un eccentrico cugino d’oltremare: è fra di noi, siamo i primi imporatori in Europa, abbiamo imparato a degustarlo anche grazie a cantine-bar-bistrot come Sakeya, in via Cesare da Sesto a Milano, autorevole sia per il numero di “vini di riso” disponibili sia per la qualità degli abbinamenti offerti.
Sakeya è infatti la “House of Sake” più grande d’Europa, che in cucina si affida all’esperta guida dello chef Masaki Inoguchi. Ingredienti di grande qualità senza compromessi, ricette e piatti che presentano un quadro originale del Giappone di ieri e di oggi, con qualche influenza europea, ed hanno come priorità quella di esaltare il principe del locale: il sake.
La carta dei sake è imponente, gli immancabili classici sono accompagnati da proposte spumantizzate (happoshu) con metodo charmat e champenoise, da etichette riserva, invecchiati in legno di cedro (koshu), affinati in botte (taru zake), non filtrati (nigori sake) e non diluiti (genshu). Ognuno ha il suo corredo di aromi, complessità, peculiarità di degustazione, potendo andare in tavola freddi, a temperatura ambiente o scaldati; ognuno va accompagnato a un piatto che ne valorizzi l’esperienza. Un lavoro di ricerca costante per offrire anche prodotti di difficile reperibilità come il nama sake (non pastorizzato) o il Shinshu (sake novello). La gamma proposta punta a dare una panoramica completa delle 47 prefetture giapponesi, grazie anche alla professionalità del personale di sala, ognuno dei quali ha la qualifica di Sake Sommelier.
Proprio come Yasumasa Yamasaki, il manager di sala del Sakeya, che ci fornisce un’indicazione fondamentale in proposito. “Il sake è per il cibo”, spiega Yamasaki, “e il cibo è per il sake. In Giappone studiamo accuratamente l’abbinamento con ciascuna portata, perché meglio si apprezzino le sfumature dei piatti tipici giapponesi. Da noi, infatti, è più raro che il sake sia servito come aperitivo o a fine pasto, come bevanda da meditazione. Qui al Sakeya la scelta è fra le tante creazioni dello chef Masaki Inoguchi: il menu è costruito per essere un’alternativa al sushi, che pure abbiamo, ma non come pilastro della nostra offerta. Il sushi qui a Milano lo si trova in cento posti diversi, noi siamo a disposizione per chi voglia provare l’altro Giappone.”
Vediamolo, allora, questo Giappone non milanesizzato in esposizione al Sakeya: la prima sezione è per i piatti “Obanzai”, il tradizionale stile di cucina originario di Kyoto, come il “Wagyu Tataki” (tagliata di manzo Wagyu scottata alla fiamma, nuvola di riso soffiato croccante, uovo in camicia, insalata di daikon e salsa ponzu) o il “Goma Hiramasa” (sashimi di ricciola marinata in salsa al sesamo bianco, tempura di shiso croccante e bottarga di muggine). La seconda propone “Sumibi Kushiyaki”, la profumatissima brace giapponese al carbone dove si possono allineare anguilla, pollo, black cod, wagyu, salmone, pancetta di maiale e funghi cardoncelli: una sfilata di spiedini perfetti anche per la condivisione. La terza accoglie i piatti iconici dello chef Masaki Inoguchi: ad esempio il “Kan Okoge” (granchio reale dell’Alaska cotto al vapore, con riso soffiato croccante e crema di sedano rapa al miso bianco) e lo “Yaki Tako” (polpo in tre cotture con crema di zucca masala e chips di patate dolci viola). L’ultima invece vira su “Masu Chirashi” (riso aromatizzato allo shiso rosso con alga nori, sesamo tostato e salsa di soia) da accompagnare con salmone, uova di salmone o granchio reale; ed infine qualche Sushi, Wagyu soba ed Edo Ramen.
Ad ognuno il suo sake, come dicevamo: la guida discreta e assertiva di Yamasaki ci ha messo in grado di apprezzare pienamente il sashimi di ricciola in compagnia di un sake Hatsumago Densho, rotondo e corposo, impreziosito da un sentore delicato di formaggio; era alla pera la nota fruttata, quel tanto che basta per vivacizzare una bevanda che debba confrontarsi con ricciola e bottarga. Gli spiedini di pollo, anguilla, wagyu ed altro, ma pure i pomodori ciliegini avvolti nel bacon e passati al carbone, sono stati supportati da una dose di sake Denshin Tsuchi, con un sottofondo di soia che non ne diminuiva la freschezza. Ed infine la sorpresa delle costine di cinghiale con patate dolci fritte e salsa di miso rosso, che hanno trovato ad attenderle l’Uroko Yamahai, invecchiato per 3 anni in grotta: piuttosto corposo, strutturato, in grado di rivelare al palato tutto il pregio dell’invecchiamento assieme a qualche ornamento di frutta matura e cioccolato, appena percettibile.
Ne abbiamo ricavato, infine, che la poesia di una storia gastronomica millenaria, dispiegata fra i tavolini e le luci soffuse del Sakeya, si apprezza consapevolmente solo se accompagnati: la sequela di un artista dell’abbinamento come Yamasaki ha il suo peso, ma la materia prima nobile, cioè il sake in tutte le sue versioni, è quella che dà al pranzo o alla cena orientaleggiante il suo tratto unico.