Edoardo Bonaspetti – co-direttore di Ordet, uno spazio di produzione artistica e culturale a Milano – è l’ospite di questa settimana del Motel Nicolella
Ultimamente mi è capitato di ospitare tanta gente dal profilo molto differente, naturalmente legata al mondo dell’arte. Abbiamo avuto curatori, artisti, aspiranti galleristi, scrittori… e oggi in un certo senso abbiamo una vera eccezione, perché Edoardo Bonaspetti è tutte queste cose assieme. Nel settore lo conoscono tutti, ma siccome la mia rubrica è rivolta al largo consumo della divulgazione, spieghiamo prima di tutto da dove arriva.
Ciao Edoardo, benvenuto al Motel Nicolella. Ricordo che la prima volta che ci siamo conosciuti eravamo entrambi ospiti a Ginevra da Andrea Bellini, al Centro d’Arte Contemporanea (garanzia di qualità altissima). Erano i tuoi ultimi tempi a Mousse, rivista e casa editrice che si è distinta negli ultimi anni ereditando probabilmente il testimone del miglior Flashart. Come è iniziata, e poi conclusa, quella avventura?
Ho aperto la rivista spinto dall’entusiasmo per l’arte contemporanea. Ho studiato comunicazione all’università e dar vita a un progetto editoriale è stato un meccanismo che si è attivato in maniera quasi naturale. Mi è sempre piaciuto dar forma a contenuti e collaborare con persone anche molto distanti tra loro. La rivista mi permetteva tutto questo, e ci tenevo che avesse un taglio preciso, un’identità forte che trasmettesse una lettura del sistema dell’arte rigorosa e personale. Poi come a volte capita nella vita, le condizioni che ti circondano possono mutare e se non ti riconosci più in un progetto, decidi di chiudere quella fase.
Oggi sei passato dal giornalismo alla curatela aprendo uno spazio assieme a Stefano Cernuschi. Siete a Porta Romana e vi chiamate Ordet. Che significa? Di che si tratta?
Dopo l’esperienza come curatore alla Triennale di Milano, mi appassionava l’idea di aprire uno spazio di ricerca e di produzione culturale. Era un pensiero condiviso anche da Stefano Cernuschi con cui avevo collaborato per diversi anni da Mousse. Così abbiamo aperto Ordet. L’obiettivo è promuovere progetti originali con un approccio multidisciplinare, collaborando per lo più con artisti che non hanno avuto visibilità in Italia. Il nome arriva da un bellissimo film del regista danese Carl Theodor Dreyer; il termine significa parola, messaggio e fa riferimento alle tensioni e alle aspirazioni della vita.
Al momento cosa avete in mostra?
Dopo John Knight con cui abbiamo inaugurato lo spazio, la collettiva “Homeland” sui temi del confine, sorveglianza e controllo sociale, e Danny McDonald, abbiamo appena inaugurato Lavender Town Syndrome, la mostra personale di Andrew Norman Wilson. Il progetto espositivo è incentrato su un nuovo video multicanale che abbiamo prodotto con il supporto di Seven Gravity Collection, DOCUMENT di Chicago e lo SculptureCenter di New York. Il lavoro affronta l’impatto che la tecnologia esercita sulla dimensione di “veridicità” ed è stato realizzato con diverse tecnologie di imaging: un obiettivo fotografico, animazioni fotorealistiche di ray tracing e di frattali, per zoomare dentro e fuori tre ambienti artificiali.
E’ uno spazio destinato alla ricerca, ok, ma vi occupate anche di mercato? Che fascia di collezionisti vi interessa raggiungere?
Non siamo una galleria, quindi l’interesse per i collezionisti è relativo. Capita che alcuni lavori siano disponibili, ed in caso di vendita i proventi vanno a sostegno della programmazione, all’artista e alla galleria che lo rappresenta. Abbiamo rapporti con i collezionisti soprattutto per quanto riguarda il prestito di lavori dalle loro collezioni, che gentilmente ci mettono a disposizione per i progetti espositivi. Ad esempio, l’installazione centrale per Homeland, l’opera di Hermann Pitz composta da sette luci originali del muro di Berlino, appartiene alla Collezione la Gaia ed era perfetta per la mostra.
Parlando di gusti tuoi, visto che sei un talent scout di alto profilo, citami 3 o 4 artisti che in questo momento stanno facendo cose interessanti.
Ce ne sono tanti. E’ il genere di domanda che mi mette in crisi. Ti dico semplicemente quattro artisti che sto seguendo ora per ragioni diverse: Samson Young, Lawrence Abu Hamdan, Diego Marcon e Hannah Levy.
Come di rito, dopo averti ringraziato per il tempo speso assieme, devo chiederti cosa vuoi bere per accompagnare questa bella chiacchierata.
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