Una raccolta pubblica e una privata si mettono a braccetto per offrire uno spaccato, piccolo ma di qualità, della pittura napoletana del Seicento. Dopo Caravaggio. Il Seicento napoletano nelle collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito, dal 14 dicembre 2019 al 13 aprile 2020.
Il Museo conserva un importante corpus di opere del Seicento napoletano giunte ab antiquo da due famiglie di collezionisti pratesi, i Vaj che avevano formato una ricca quadreria a Roma nel ‘600 e i Martini, mercanti di stoffe, che alla fine del Settecento potevano vantare un Cabinet d’art di 130 opere, tutte confluite nel museo.
La Fondazione De Vito, istituita nel 2011, possiede una ricca e raffinata raccolta di pittura napoletana del Seicento, grazie all’ingegnere e collezionista Giuseppe de Vito, che dal 1970 raccoglie testimonianze in tal senso. Ha fondato il periodico “Ricerche sul ‘600 napoletano”, partecipato a varie mostre e scritto saggi, diventando uno dei maggiori specialisti del settore.
Così, alle due curatrici Nadia Bastogi, direttrice scientifica della Fondazione de Vito, e Rita Jacopino, che ricopre lo stesso ruolo in Museo di Palazzo Pretorio, è venuto in mente di unire opere dell’una e dell’altra e creare il percorso di una mostra, che si è rivelata compatta e ben integrata. Diciannove dipinti, tutti capolavori, sfilano raccontandoci che cosa succede a Napoli dopo Caravaggio.
Il grande artista lombardo capita a Napoli due volte, dall’ottobre 1606 al giugno 1607, quando scappa da Roma dopo aver ucciso Tomassoni e dall’ottobre 1609 al luglio 1610, dopo la fuga da Malta per raggiungere Roma e ottenere il perdono del papa. Nonostante sia provato nel fisico e nello spirito lascia opere drammatiche e carismatiche. Gli artisti napoletani ci meditano, le studiano, si ispirano, le rielaborano aggiungendoci il loro estro, dando vita ad un caravaggismo napoletano di grande bellezza.
Le opere in mostra, riunite secondo nuclei cronologici e tematici, coprono un arco di tempo dal 1618 circa al 1650 circa, testimoniando il passaggio da un primo deciso naturalismo a motivi più classicheggianti di matrice bolognese e neo -veneta. Il primo impatto è con il geniale Battistello Caracciolo, e con il suo spregiudicato e irruente Noli me tangere del 1618: un Cristo seminudo con tanto di cappello sembra lanciarsi con prepotenza sulla Maddalena. Luci e tagli obliqui, Battistello li aveva imparati direttamente da Caravaggio. Anche il suo San Giovanni Battista fanciullo, del 1625-1630, fresco di restauro, rivela con quale forza e carattere il pittore interpreti il lombardo.
Altri importanti protagonisti. Jusepe de Ribera, artista spagnolo a Napoli dal 1616 al 1652, porta all’ennesima potenza il realismo caravaggesco. Il suo rugoso Sant’Antonio Abate, datato 1638, con il suo sguardo e la sua senilità, è una presenza vitale ancora oggi, dopo quattro secoli. E poi c’è l’enigmatico Maestro dell’Annuncio ai pastori, che non si riesce a identificare: si tratta di Juan Dò? Chissà. Certo le sue figure brillano di poesia, come quella Giovane che odora una rosa del 1635-1640, una tela acquistata da De Vito negli anni Settanta ed esposta più volte. Bellissima. Altre volte queste appaiono invece forti, intriganti, dello stesso cupo realismo di Ribera, come quell’Uomo che si guarda allo specchio del 1640-45, che appare perplesso meditando sulla vanità dell’esistenza. Vicino ai colori bruni e pastosi di Ribera e alla sua interpretazione di Caravaggio è anche il Vecchio in meditazione con un cartiglio, del 1648-1652, appena restaurato.
Sfilano poi Paolo Finoglio, Giovanni Ricca, Andrea Vaccaro, Bernardo Cavallino, Antonio De Bellis, Francesco Fracanzano sino a Mattia Preti, con opere importanti e sorprese come il gruppo di protagoniste femminili, sante ed eroine, che allora erano di moda. Una nota di merito va al catalogo, con ottime riproduzioni (Claudio Martini Editore) ed anche alle ricerche documentarie, che in una mostra seria non devono mai mancare.