La GABA.MC – Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata ospita sino a gennaio la mostra curata da Antonello Tolve che punta il focus sulla nozione di spazio indagata dall’artista
La poetica di Marina Paris è incentrata sulla mutevolezza e la persistenza dell’immagine intesa come non-luogo del ricordo, dimensione che definisce una geografia interiore, portata avanti e segnata da tappe fotografiche, grafiche o video installative, azioni artistiche dettate da processi per lo più inconsci che, poi, l’artista registra, definendo un codex perturbante e metafisico, una zona surreale in cui la percezione si muove ed agisce. Gli spazi della GABA.MC si sono tradotti in un alveo in grado d’accogliere il progetto Space Transformer, una mostra nata da “un felice incontro con la direttrice” ed “uno studio visit di Antonello Tolve” curatore dell’esposizione; un percorso articolato, che si dipana attorno al cardine principe dell’indagine portata avanti dalla Paris, sostenuta dal missaggio tra il concetto di ‘spazio’ e quello di ‘identità’. È la stessa Marina Paris a raccontare, a svelare come Space Transformer avanza, generando un contraltare visivo con “il rapporto che ho avuto nel corso degli anni con lo spazio” ovvero “lavorare nello spazio, con lo spazio e attraverso lo spazio”.
Space Transformer è una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, una mostra che si articola nell’arco dell’ultimo decennio, avviando il percorso fruitivo dagli ultimi lavori del 2019 – la serie ‘Urban Fragments’ – che Marina Paris così ha raccontato, in una interessante intervista: “la prima sala è dedicata agli ultimi lavori, nati sull’idea della cartolina, del viaggio, dello spazio, perché la cartolina è come uno spazio che viaggia. Tutti i lavori sono dei collages, tratti da cartoline che, nel tempo, ho collezionato su diversi luoghi italiani. Questa parte della mostra nasce come un reperto di cartoline sul territorio italiano, su come esso è cambiato.” Marina Paris, poi, lascia entrare nell’epifania della creazione, raccontando che “il lavoro si sviluppa sullo spazio bianco, ovvero, lo spazio bianco è il lavoro del collage, il quale viene strappato con un pollice, a seconda di alcuni contorni e confini di carte geografiche…”.
In tal maniera, il processo di progettualità si anima di un afflato che, nella sua lirica osservazione e narrazione, ne modifica i caratteri essenziali, per crearne qualcosa di altrimenti impensabile. Il viaggio alla scoperta di una memoria che fu, continua, avanzando ossimoricamente nel passato e giungendo nella seconda sala della GABA.MC, ove si incontrano grandi opere fotografiche afferenti alla serie ‘Under Deconstruction’, realizzata tra il 2014 ed il 2015, allorquando le sorelle Fendi hanno allogato a Marina Paris un progetto di fotografia di documentazione; è l’artista a spiegare che le Fendi, acquistata una antica tenuta alle porte di Roma, hanno desiderato “prima della ristrutturazione”, realizzare “un lavoro d’archivio, di documentazione sugli spazi che di lì a poco sarebbero stati distrutti e ricostruiti, sotto un’altra veste ed una nuova vita. La cosa più interessante di questo lavoro” sottolinea l’artista, “è stato osservare come il tempo, inteso come tempo reale e agente atmosferico, abbia sfondato lo spazio, abbia creato diverse colorazioni, piuttosto che diversi interventi strutturali sull’edificio”.
Dinanzi a tali grandi immagini, ci si ritrova immersi in un luogo che è investito da una straniante immanenza, in cui il silenzio è filiazione dell’urlo di un tempo trascorso e libero d’agire. Nelle scene ritratte dalla Paris, affiora una fascinazione altera, esteticamente estatica, in cui presente, passato e futuro dialogano in un istante eterno e cristallizzato, di cui oggi, quelle foto, sono unica testimonianza, radice identitaria di ciò che è avvenuto.
Il passaggio dallo spazio reale a quello grafico segna una successiva tappa nel percorso espositivo, in cui l’astante incontrerà, in una sorta di proseguimento non solo allestitivo ma anche concettuale, opere e collages realizzati tra il 2014 ed il 2018. In questa zona di passaggio, le opere presenti scandiscono il processo maieutico di Marina Paris che ella descrive come un compendio di “immagini di interni, di spazi surreali e metafisici, realizzate attraverso la sovrapposizione di veline, cartoncini e carte di varia grammatura che vanno a definire lo spazio”. Ecco il quid di tale sezione che, per eco, torna in tutta la mostra, ovvero quella volontà di definire lo spazio gestendone le peculiarità, la profonda complessità, tentando di fotografarlo, riassemblarlo, disegnarlo per ricostruirlo. In un simile lavorìo, pars costruens et pars destruens si missano, generando una sequenzialità di messa in scena che incede fra tracce e frammenti, dichiarazioni di intenti e loro opposti, in un continuo ed imperituro mutamento. L’ultimo luogo della mostra, depositario del concetto di ‘spazio’ di Marina Paris, è la sala che accoglie un’opera di video arte, titolata ‘Less than five minutes’, del 2009 “realizzata insieme ad Alberto D’Amico, che ha sceneggiato il lavoro” e che, come chiariva Roberto Pinto, nel testo che accompagnò l’opera dieci anni fa “declina ulteriormente il lavoro di Marina Paris in un gioco di passaggi tra due e tre dimensioni tra labirinti e spazi geometrici che continuamente si trasformano l’uno nell’altro. Passaggi che continuamente mettono in crisi la nostra coscienza di aver compreso, in un solo e unico sguardo, tutto quello che la realtà può racchiudere in sé”.
Il video, che la scorsa primavera è stato tra i protagonisti della rassegna ‘La Superficie Accidentata’ a cura di Gino D’Ugo allo spazio Fourteen ArTellaro, convoglia in esso una ricostruzione animata dall’elemento principe che è la ‘trasformazione’, il racconto che procede in un tempo ristretto, dal potere ipnotico ed ammaliante, in cui il procedere dell’animazione spinge la percezione a riconoscere quanto appare e poi, subito dopo, a seguirne la sempre nuova direzionalità. È ancora l’artista a raccontare che l’opera giunge come ultimo stadio di mise en scène di “centinaia di disegni di spazi pubblici che sin dal 2003 ho iniziato a fotografare in Italia e ricavatone disegni vettoriali, poi montati in sequenza, in una sorta di spazio surreale, metafisico, tridimensionale, in cui c’è un continuo gioco in loop tra quello che vedi e quello che un secondo dopo cambia, quindi anche questo è un lavoro che si richiama al titolo iniziale della mostra perché è completamente dedicato alla trasformazione dello spazio della linea e dell’immagine”.
La mostra, dunque, si conclude varcando la soglia dell’ignoto, accedendo alla dimensione dell’insondato che la linea, la traccia e l’immaginazione percorrono e pervadono, mentre tutt’intorno muta, sublimandosi nell’essenza identitaria mai uguale a sé e dalla quale pure bisogna trarre un punto fisso, un luogo di stabilità che, in realtà, forse, non esiste affato ed in cui la trasfigurazione è il solo territorio di creatività ove, all’unisono, si interpolano l’azione mnemonica con la tensione inconscia, in una sospensione irreale eppure percepibile quale fantasmagoria di ciò che ci è noto, in una meta-realtà che il curatore, Antonello Tolve ha definito “analisi logica dell’arte intesa essa stessa come spazio”, in un turbinio metamorfico di matrice concettuale. Space Transformer, che ha aperto al pubblico lo scorso 24 ottobre, sarà visibile sino al prossimo 12 gennaio 2020.
GABA.MC – Galleria dell’Accademia di Belle Arti
Piazza Vittorio Veneto 7 (Macerata)
www.abamc.it
Azzurra Immediato