Centocinquant’anni sono un bel po’ di tempo, anche se per assurdo sono poca cosa rispetto a chi ne può vantare più di cinquecento.
Eppure, quelli che compie il 13 aprile del 2020 il Metropolitan Museum of New York sono diversi da tutti gli altri perché questo è l’unico museo nato per condivisione e non per concessione, nello spirito di un Paese fondato da criminali e perseguitati religiosi, da puttane e miserabili, scappati insieme sulla nave dei Pellegrini lungo l’infinito sonnecchiare del mare prima della Tempesta, per approdare sulla Terra Promessa.
Nel 1870, quando avevano appena cominciato a costruire il ponte di Brooklin e il religioso del Mississippi Hiram Rodhes Revels fu il primo nero americano eletto fra le file dei repubblicani nel Congresso degli Stati Uniti durante la presidenza di Ulysses S. Grant, un gruppo di uomini d’affari, finanzieri, artisti e pensatori fondò il Metropolitan con l’idea di creare un museo che potesse portare l’arte al popolo americano nella città di New York, rinserrata sull’ansa del fiume Hudson con i suoi palazzi eleganti e il soffocato sferragliare del Beach Pneumatic Transit, la prima metropolitana al mondo, lunga appena 95 metri sotto Broadway.
Da allora il Metropolitan, che oggi custodisce decine di migliaia di oggetti che coprono cinquemila anni di arte da tutti i continenti della Terra in tre siti iconici (Fifth Avenue, Breuer e Cloisters), ha sempre conservato questo spirito ideale, diventando il museo del mondo nel mondo e finendo anche per pagarne un prezzo abbastanza caro. Perché se è vero che nel 2015 aveva attirato oltre sei milioni di visitatori, dietro solo al Louvre di Parigi, lo aveva fatto soprattutto grazie alla politica generosa del pay as you wish, letteralmente paga come vuoi, che finì per dissanguare le sue casse, aumentando il deficit, che passò velocemente dai 3,5 milioni di dollari nel 2014 ai 7,7 del 2015, fino ai 10 del 2016. Per questo, il Metropolitan fu costretto a una improvvisa svolta, un po’ meno in linea con il suo progetto ideale.
Thomas P. Campbell rassegnò a stretto giro di posta le dimissioni dalla direzione del Met. Il Museo passò sotto la guida di Daniel H. Weiss, presidente e Ceo dell’istituzione, che impose dal 2018 nuove regole: dopo cinquant’anni basta con la libera offerta del pay as you wish e da quel momento in poi il biglietto costa 25 dollari per tutti i visitatori non residenti a New York. Il Museo ha però messo a posto i conti e il nuovo direttore, lo storico dell’arte austriaco Max Hollein, ha potuto mostrare ai giornalisti il primo bilancio in pareggio già nel 2019.
Ma adesso, per le cerimonie dei 150 anni, il Metropolitan ha allestito un programma di eventi che recupera il suo spirito originario, ripercorrendone la storia dalla sua fondazione, a cominciare dal Making The Met, 1870-2020 (dal 3 marzo al 2 agosto), che approfondisce alcuni temi portanti: gli ideali dei fondatori del Met, il ruolo del museo durante la Guerra, il collezionismo. Il 2 marzo, invece, apriranno le Annie Laurie Aitken and Josephine Mercy Heathcote Galleries, oltre mille metri quadrati con quasi 700 opere decorative, design e sculture britanniche realizzate tra il 1500 e il 1900. Sulla scia di quello che avvenne per il centenario, quando il Met divenne veramente enciclopedico con le nuove ali dedicate all’arte africana, oceanica e all’Islam, per questo anniversario il museo ha ricevuto doni da oltre cento collezionisti da tutto il mondo.
Una generosità, questa, che si ripete anche se in modi diversi in altri anniversari, come quello del Prado di Madrid, che il 19 novembre del 2019 ha compiuto 200 anni e che per l’occasione ha ripreso una antica usanza di sottoscrizione popolare per comprare il “Ritratto di bambina con colomba”, capolavoro di stampo caravaggesco di Simon Vouet, 1590-1649, pittore francese che ha vissuto a Roma. Per comprare questo quadro sono necessari 200mila euro, che il Prado sta già raccogliendo. Vouet finirà così in mezzo ad altri grandi, fra «Il Giardino delle delizie» di Bosch, «Il Boccanale degli Andrii» di Tiziano, «La Maya Desnuda» di Goya, e poi Velazquez e Rubens.
Ma il Metropolitan e il Prado, che celebrano in questi mesi la loro storia centenaria, non sono i musei più antico. Il primo, in questa particolare classifica, è quello dei Musei Capitolini di Roma, aperto al pubblico nel 1734 per volontà di Clemente XII, ma il cui nodo centrale si può far risalire al 1471, quando Papa Sisto IV donò alla città una collezione di importanti bronzi provenienti dal Laterano, tra i quali la Lupa capitolina. In questi musei sono ospitati numerosi tesori dell’arte romana, rinascimentale e barocca. Anche l’istituzione più grande del pianeta, l’Ermitage di San Pietroburgo, con oltre tre milioni di opere d’arte arrivate da tutto il mondo, è più antico del Prado e del Metropolitan, essendo stato inaugurato nel 1764 quando l’imperatrice Caterina la Grande acquistò una collezione di dipinti unica da Johann Ernst, un mercante di Berlino. Costituito da 6 edifici diversi, tra cui il Palazzo d’inverno, storica residenza degli imperatori russi, adagiato sulle rive della Marna, ospita opere preziose di grandi artisti come Leonardo, Tiziano, Raffaello, Van Dyck, Monet, Renoir, Gauguin, Matisse, Van Gogh, Picasso. Il 7 dicembre di ogni anno durante il giorno d Santa Caterina celebra il suo anniversario. Poco più di un mese fa ne hanno contati 255.
Prima ancora dell’Ermitage, Pietro il Grande aveva fondato nel 1717 la Kunkstkamera, che significa “camera d’arte”, il primo museo russo, con oltre 200mila oggetti esposti, sempre a Pietroburgo, di fronte al Palazzo d’Inverno. Ospita una collezione dedicata a preservare le rarità e le stranezze unami e naturali. Il più antico di Francia è invece il Museo di Belle Arti e Archeologia di Besancon, aperto nel 1694.
Il Louvre, il più visitato al mondo con i suoi 9 milioni e 720 mila biglietti staccati nel 2014, fu inaugurato soltanto nel 1793, nei giorni tumultuosi della Rivoluzione francese. Edificato nel XII secolo come fortezza, fu sede della Monarchia fino al 1789, quando il governo rivoluzionario lo trasformò in un museo. Se agli inizi lo spirito non doveva essere molto diverso da quello che avrebbe animato tanti anni dopo il Metropolitan nella lontanissima New York, già con Napoleone e le sue razzie fece in fretta a diventare più un luogo di espressione del potere che di comumanza artistica. Oggi, però, con le sue splendide collezioni esposte in quelle sale che trasudano storia, e che vanno da Leonardo a Rembrandt, da Cezanne a Degas, Durer e Velazquez, è forse il museo più importante del mondo.
Proprio nell’anno in cui dal palazzo del Louvre furono cacciati i monarchi, in quel 1789, il granduca Pietro Leopoldo, il più illuminato e importante membro della casa austriaca degli Asburgo Lorena, nuova dinastia alle redini del Granducato di Toscana, aprì al pubblico la Galleria degli Uffizi, quel monumentale complesso ordinato nel 1560 da Cosimo de Medici non per essere un museo ma per accogliere, appunto, gli uffizi, cioé gli uffici amministrativi e giudiziari di Firenze. A partire dal 1769 la Galleria era stata riorganizzata completamente secondo i nuovi criteri di catalogazione sistematica dell’illuminismo e le raccolte erano state divise per tipologia e destinate a sedi specifiche.
Musei più antichi ancora sono il Kuntsmuseum di Basilea, del 1664, il Royal Armouries, nella Torre di Londra, 1660, e pure il Palazzo del Belvedere della famiglia reale degli Asburgo, a Vienna, aperto nel 1781, un complesso storico di due palazzi barocchi, le scuderie e l’Orangerie, che oggi ospita la più vasta collezione di Gustav Klimt. Poi, tutto questo è quello che raccontano le carte ufficiali. Perché musei ce ne sono di tutti i tipi sparsi nel mondo ed è difficile stare dietro a tutte le loro storie.
A Nuova Delhi c’è pure il museo del Gabinetto. E a mezz’ora di macchina da Seoul persino un parco tematico ispirato al WC, che fu inventato da sir John Harington nel 1590. Ma non ebbe molta fortuna. E solo nel 1883 in Francia fece la sua comparsa la tazza come la intendiamo oggi. Poi Marcel Duchamp un secolo fa ne fece un orinatoio, che andò perduto. Maurizio Cattelan invece l’ha dipinto d’oro. E il New Yorker ha detto che è la sua opera più bella. Mai dire mai. Ma se lo cercate a Seoul non lo troverete. E’ esposta al Guggenheim, che deve aspettare ancora 17 anni per festeggiare i suoi primi cento. E allora ne riparleremo.