Torna in libreria La più amata di Teresa Ciabatti: siamo un’invenzione di noi stessi. Intervista all’autrice
È tornato in libreria La più amata, il romanzo che ha introdotto sulla scena letteraria italiana Teresa Ciabatti, autrice amata per le sue costruzioni narrative – il suo ultimo romanzo è Matrigna edito da Solferino – e per le sue iconiche interviste su «La Lettura» del Corriere della Sera.
La più amata, uscito nel febbraio 2017 è tornato oggi nella nuova veste grafica degli Oscar Mondadori, con una copertina pop-camp che farebbe la gioia di John Waters: una bambola calva su campo rosa.
Orbetello: provincia di Grosseto, Toscana. Una piscina azzurra e un coccodrillo gonfiabile verde introducono il lettore al confronto memoriale di Teresa Ciabatti con il suo passato, con la sua famiglia e soprattutto col padre Lorenzo Ciabatti: figura enorme, inafferrabile, salvifica e oscura.
La più amata è un romanzo che gioca sull’ambiguità della materia di cui è fatto, ha l’aspetto di una caustica biografia «tratta da una storia vera» ma è in realtà frutto dell’inventiva di Teresa Ciabatti. Riadattamento e trasformazione sono i principali strumenti narrativi di Teresa Ciabatti-autrice, ma come fossero delle pericolose forbici le ritroviamo in mano anche alla Teresa Ciabatti-personaggio, impegnata a ricostruire la sua infanzia: «ricordo, collego, invento», è questo il suo modus operandi.
La protagonista e voce narrante de La più amata è cresciuta come una principessina, sempre pronta a fare i capricci, ad attaccarsi alle tende come una piccola Duse se le cose non vanno come vuole, è lei a raccontare la sua infanzia (apparentemente) felice e occupata dalla immane presenza di questo padre inconoscibile.
Lorenzo Ciabatti è un medico, si è formato negli Stati Uniti ma ha scelto di lavorare a Orbetello, diventando primario e sovrano territoriale «cambiare la vita alle persone, salvarle, è un modo di legarle a sé, di costruirsi una schiera di debitori. Di più: di adepti». Un uomo raggelante, dimesso, il cui unico vezzo sembra essere l’anello massonico che porta alla mano. Anello che nei suoi racconti è diventato «l’anello dell’università americana». Anche i racconti e le verità di Lorenzo Ciabatti sono frutto di trasformazione, riadattamento e manipolazione. Per il *professore (come lo definiscono i concittadini-vassalli) la demistificazione degli eventi è un’arma, un terribile strumento di tortura che non esita a utilizzare contro i suoi stessi familiari.
La famiglia è il primo luogo dove si fa esperienza del potere, un luogo politico. Lo imparerà anche Francesca Fabiani, la madre di Teresa, cui è dedicata la parte terza: LA REIETTA, ma la cui storia attraversa il romanzo dall’inizio, come un filone dorato che viene inghiottito dalle viscere di una profonda e impenetrabile miniera. Francesca arriva a Orbetello ed è raggiante, indipendente, capace, e per questo diventa oggetto immediato di pesanti e violente illazioni – troia, lesbica, sessantottina, brigatista – la sua parabola avrà il suo culmine nel sonno, durante l’anno passato sotto sedativi per un’oscura cura impostale dal marito. Le punizioni, le minacce silenziose, insieme a Francesca il lettore realizzerà che la vita offerta da Lorenzo Ciabatti è come la magione che ha costruito: una casa degli specchi, in cui le figure, i ruoli, le colpe e le paure si sovrappongono e diventano inafferrabili.
La più amata è un romanzo attraversato dalle ombre della politica influenzata dalla Loggia P2 di Licio Gelli. In una delle sequenze più belle Teresa, alla ricerca di verità inafferrabili, sfoglia l’album del matrimonio dei genitori. Nelle foto, fra gli invitati si manifestano gli ectoplasmi dei principali attori della politica italiana – quello dietro la colonna non è Giorgio Almirante? Questo signore di spalle non è Licio Gelli? Questo tizio nano non è Amintore Fanfani? – poco più avanti riaffiorerà il ricordo gelido e intirizzito di un bunker sotto la piscina, che per Teresa Ciabatti rimarrà simbolo e talismano di felicità e appagamento. E ancora: il Golpe Borghese, gli investimenti da capogiro, i rapporti di amicizia mai compresi: sembra impossibile dimostrare la figura di questo padre massone, fascista, diabolico manipolatore.
La più amata – uscito nel febbraio 2017 – è stato finalista al Premio Strega scatenando un’ondata di polemiche sulla protagonista del romanzo che porta lo stesso nome dell’autrice: Teresa Ciabatti. Ci vorranno anni perché si consolidi l’idea che l’autrice e la sua protagonista (benché portino lo stesso nome) non coincidono nella personalità e nelle azioni, se non nell’atto della riscrittura di sé stessi, che Teresa dirà sempre essere la forma più sincera del raccontarsi agli altri.
Tra i più accaniti detrattori, La più amata vanta mamme pancine scandalizzate per i passaggi sulla maternità della Teresa Ciabatti-protagonista e la comunità di Orbetello che si è nutrita dei favori di Lorenzo Ciabatti e l’accusa di ingratitudine.
Per un lungo periodo dopo la cerimonia del Premio Strega (vinto quell’anno da Paolo Cognetti con Le Otto Montagne) La Più Amata e la sua autrice sono stati oggetto delle accuse più disparate: il suo è un prodotto frivolo, la sua autrice è una mitomane dedita all’autocompiacimento e all’autocommiserazione! È dovuto passare del tempo perché il pubblico comprendesse le prerogative della sua scrittura e Teresa Ciabatti si è impegnata perché succedesse, a partire dal memorabile pezzo scritto per Il Corriere della Sera: Cronaca della mia sconfitta (17 luglio 2017), poi con le dichiarazioni degli anni successivi, finché ha rimesso a posto tutti i pezzi: la voce narrante e l’autrice condividono sì molte caratteristiche biografiche ma sono in realtà diverse e lontane fra loro. Il narcisismo, l’egoismo e la petulanza della voce narrante sono una creazione della Teresa Ciabatti-autrice, l’afflato vitale di una protagonista che (ri)vive simili passaggi biografici ma che non coincide con l’autrice.
Abbiamo raggiunto Teresa Ciabatti per farle alcune domande in occasione del ritorno in libreria de La più amata.
Spesso dei romanzi si racconta la travagliata storia editoriale, La più amata, di travagliato ha avuto invece la ricezione: dalla corsa al Premio Strega all’accusa di aver proposto un prodotto frivolo, non letterario. Come se non bastasse sono arrivate le crociate-flame su maternità e genitorialità. È servito tempo prima che fosse chiara a tutti la natura di romanzo. Quanto impegno c’è voluto e in che modo sei riuscita a ricollocare La più amata lontano dal crinale pericolosissimo dell’autofiction?
Bisognerebbe ridefinire il concetto di autofiction. Non esiste autofiction fedele. Ciascuno di noi sopravvive su ricordi fasulli. Siamo un’invenzione di noi stessi. L’autofiction è perciò il racconto della proiezione di sé, il sé più falso, quasi sempre idealizzato. In genere chi si racconta si fa intelligente, acuto, brillante, conquistatore, onesto. Ne La più amata non c’è idealizzazione, l’esperimento era la rappresentazione del sé più abietto.
Penso ai giochi narrativi sui social insieme ad altri autori, come Giuseppe Genna, in cui costruivi un’altra Teresa Ciabatti, spassosa e scorretta nel racconto del rapporto con la figlia. Un vero e proprio esperimento situazionista, vicino a quello che fa oggi M¥ss Keta su Twitter, intrecciando il suo personaggio con la politica e il costume nazionale.
A tuo parere c’è spazio per la sperimentazione sui social network?
Sui social per reggere il continuo equivoco serve vitalità e giovinezza che io non ho. Sperimento nei romanzi.
A proposito, a quando una tua intervista a M¥ss Keta?
Spero presto.
Nel corso degli ultimi anni hai realizzato interviste iconiche e trasversali, da Loredana Bertè a Lele Mora, da Cristina D’Avena a Niccolò Ammaniti, da Rocco Siffredi a Fumettibrutti. La dimensione dell’intervista sembra soddisfarti moltissimo, è così?
L’intervista è un genere letterario. Significa raccontare un personaggio, inevitabilmente dal proprio punto di vista. Per esempio: io mi rendo conto di soffermarmi sempre sull’infanzia. Soffermarmi troppo, tanto che spesso sono interviste sbilanciate che raccontano più l’ossessione dell’intervistatore, me, che dell’intervistato. Difatti non registro, scrivo direttamente. Parto subito con l’ammissione che si tratterà di una mia interpretazione, se non manipolazione. A volte gli intervistati gradiscono, altre no.