Memoria di un Giardino. Maria Luigia Gioffrè porta il suo intimo immaginario al Marca di Catanzaro nella sua prima personale (visitabile fino al 25 aprile 2020). La mostra, a cura di Gaetano Centrone e Simona Caramia, si dipana in un percorso installativo che diventa riflessione estetica sulla contemporaneità e le sue urgenze: il rapporto uomo-natura, la vita e l’aridità, il desiderio nel ripetersi all’infinito del gesto creativo. Una suggestione di immagini ed effetti sonori che, stanza dopo stanza, crea una trasfigurazione evocativa, un’alternanza di ritmi e stati d’animo che solo l’arte riesce a determinare. Fotografia, audiovisivo, effetti sonori si accavallano lungo il percorso trasformando lo spettatore in protagonista stesso dell’installazione. Abbiamo chiesto direttamente all’artista di farci entrare nell’opera, nel suo lavoro, conducendoci attraverso la sua ricerca e direttamente accompagnandoci tramite suggestioni per le sale del museo calabrese.
Che memoria è la Memoria di un giardino? Come la mette in scena? Che linguaggi utilizza?
Attraverso un linguaggio visivo, la memoria evocata nel titolo della mostra vuole riferirsi ad uno spazio intimo, certamente personale ma declinabile all’universale. Mettendo in scena un paesaggio di terra desertificata in cui i performers agiscono vestiti in tute bianche asettiche e mascherine e lavorando alla drammaturgia distopica della fine, si opera il tentativo di richiamo ad una memoria vicina al ricordo dell’infanzia di uno e di tutta l’umanità.
Qual è il focus della sua ricerca oggigiorno? Come si inquadra a livello generale nella sua indagine e formazione artistica?
Al cuore della mia ricerca c’è una profonda curiosità per la trasfigurazione estetica della drammaturgia di azioni quotidiane. Trovo che l’arte sia – tra le varie definizioni che le si possano dare e alle quali sono con tutte d’accordo – un particolare dispositivo di meraviglia che agisce al di fuori delle dialettiche sistemiche di potere, ed importante in un tempo storico che ha ridotto lo spazio della dimensione del mistero e della meraviglia appunto.
In questo senso, lavorare con la drammaturgia della performance, perciò con l’essere umano, lo trovo meraviglioso. La formazione e i miei studi provengono dalla fotografia, che ha una forte influenza sulle mie modalità di approccio alla pratica artistica, così ogni lavoro di cui mi occupo parte prima di tutto da una visione, da un’immagine e, anche quando combinata con l’azione performativa, tenta continuamente di restituire l’evocazione di un immaginario.
Com’è allestita la mostra-Memoria nelle sale del MARCA di Catanzaro? Cosa significa allestire una Memoria? Una breve descrizione di come si sviluppa il percorso espositivo…
Allestire la mostra è stato in parte doverla ripensare, ovvero riadattarla allo spazio espositivo, perciò in qualche modo doverla ricreare. Lo spazio, le persone, il contesto, tutto invita a compromessi e nuove prove per un lavoro che si dispiega appunto in uno spazio, per così dire, immersivo. Tutto questo è certamente stimolante per la vita dell’opera stessa.
Nello specifico, la mostra si dispone in un percorso di quattro sale espositive. Nella prima è presente una serie fotografica che ripercorre i tre atti (Seminatrice, Eden e Preghiera) della performance Purgatorio di Primavera, tre performances e ricerche realizzate tra il 2018 e il 2019 con la collaborazione drammaturgica dei performers Giuseppe Fabris, Giovanna Cammisa e Sara Saccotelli e grazie al sostegno delle residenze presso Tenuta dello Scompiglio in Toscana e Fabbrica del Vapore, Fattoria Vittadini a Milano, tre lavori che tentano di dare corpo ad un’estetica dell’aridità del paesaggio naturale dove l’elemento figurativo di un possibile collasso del genere umano la preistoria coincidono.
Nella seconda sala sono presenti un estratto video di Eden appunto tratto dal lavoro sopracitato Purgatorio di Primavera e un estratto di Pangea (2017), performance in cui pagine di un atlante geografico vengono immerse e lavate all’interno di un catino fino al deteriorarsi della carta. La terza sala e quarta sala compongono invece un’istallazione che comprende 25 tonnellate di terra da coltivazione, vasi e rami secchi affiancati da un intervento sonoro e da un lavoro inchiostro su carta della lunghezza di circa sei metri, realizzato tra il 2015 e il 2016 intitolato, Lettere di non-corrispondenza per un vuoto permanente.
L’idea dell’infertilità della terra, tutto nasce e si sviluppa da qui attraverso dei “gesti semplici”… Ce lo può spiegare…
La terra infertile è un elemento narrativo, funzionale alla creazione dell’immaginario che i lavori “Eden” e “Seminatrice” tentano di raccontare. Non vi è alcuna idea precostituita, appunto, nessun concetto, ma sgorgo di immagini.
Nel dire gesti semplici riguardo le azioni delle mie performance, credo che intendano al fatto che molti lavori si configurano con una sola azione spesso molto elementare – imbiancare un muro o riempire un vaso di terra – che viene ripetuta per lungo tempo.
La sua non è una pratica performativa “classica” perchè nelle sue azioni il suo corpo tende a dissolversi. Di che pratica si tratta? E perchè non ama definirsi performer?
In verità non ho mai usato tale espressione, probabilmente si è inteso ciò considerando l’impronta fortemente visiva che do alle mie performances e per la prevalenza che in esse ha l’immagine rispetto al corpo; difatti, mi sento più vicina ad un’impostazione teatrale che a quella propria della liveart, dove il corpo è assolutamente centrale. Non sento contrasto tra l’attività della performance e quella del teatro – penso per esempio all’eloquente lavoro di Dimitris Papaioannou che ne fa continua commistione – se non in termini teorico-formali in merito alla riproducibilità – e penso al riguardo il discorso sugli happenings degli anni ‘50 e ‘60 – e alla letteratura accademica in merito alla documentazione dell’opera performativa.
Quali saranno i prossimi sviluppi del progetto?
Questo lavoro sul giardino in particolare contiene una sua chiusura nei tre atti, ma non esaurisce la sua poetica che vorrebbe trovare una sua espressione più compiuta.