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La schizofrenia sul Coronavirus. Il capitalismo ha il panico nelle vene?

In nome del profitto molti giornali italiani hanno creato il panico sul Coronavirus. Per poi improvvisamente chiedere una lettura pacata e razionale. Forse il panico e la schizofrenia sono la vera anima del capitalismo? Una cosa è certa. L’arte, la cultura e la scienza sono l’esatto contrario 

Nell’insostenibile atmosfera di paura dentro la quale ci siamo ficcati da qualche giorno, ci sono alcune cose che facciamo fatica a capire. Che siamo un po’ schizofrenici, mica solo un po’, è un dubbio che ogni tanto è già venuto a qualcuno di noi. Non fosse per la facilità con cui riusciamo a passare da un’idea all’altra e possibilmente al suo esatto opposto. Ma con il Coronavirus abbiamo dato il massimo. Perché abbiamo appiccato il fuoco con una ossessione persino insospettabile, a qualsiasi latitudine e senza distinzioni di scale gerarchiche. E poi improvvisamente abbiamo trasformato questa vocazione da piromani appassionati, come se nulla fosse, molto allegramente, nell’incrollabile e generosa missione dei pompieri. Il caso più emblematico è senz’altro quello di Libero, su cui si sta già facendo una grande ironia, che dopo averci fracassato i neuroni per giorni interi con i titoli più angoscianti che si potevano immaginare, sfiorando le vette olimpiche il 23 febbraio con l’annuncio inequivocabile di «Prove tecniche di strage», appena 4 giorni dopo, il 27 febbraio, ha sparato a caratteri cubitali «Virus, adesso si esagera», con tanto di occhiello, «Diamoci tutti una calmata». Ma sarebbe sbagliato fermarsi solo su Libero. Tutta la nostra classe dirigente ha avuto lo stesso comportamento ondivago, dal presidente del Consiglio con la tuta della Protezione Civile a tutti i piromani di professione che riempiono così alacremente il nostro emisfero politico e che adesso buttano secchiate d’acqua sul fuoco come ha tentato di fare il nostro ministro degli esteri Luigi Di Maio presentando un elenco di numeri che minimizzano il contagio del virus.

Da Repubblica al Corriere

E la stessa cosa hanno fatto i grandi giornali. Se Repubblica ora lancia messaggi di speranza, «Riapriamo Milano», dopo aver urlato eccitatissima alla «paralisi da virus» e al Nord in quarantena, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana scrive un fondo per incitare tutti a rientrare nella normalità mentre ospita Paolo Giordano che tratteggia con grande precisione tutte le ragioni, matematiche e scientifiche, per cui è necessario invece tenere alta la guardia e obbligarci alla quarantena. C’è comunque qualcosa di incomprensibile in questa narrazione schizofrenica che insegue tutte le domande possibili come un qualsiasi prodotto di consumo. La natura istantanea della comunicazione e la neodipendenza dell’informazione dai social media hanno trasformato il mondo giornalistico e hanno fatto sì che l’opinione pubblica sia diventata più volubile e molto più facilmente catturabile con gli strilli e le esagerazioni. Ma questo non basta a spiegare tutti i cambiamenti repentini a cui stiamo assistendo. E non serve neanche a capire le ragioni di due fronti opposti, così lontani e inconciliabili fra di loro. Leggendo lo splendido pezzo di Paolo Giordano, che spiega con rigore matematico e una logica ferrea come non si possa minimizzare il problema, con il rischio poi di avere un numero così elevato di contagiati da far saltare il sistema sanitario, che non sarebbe più in grado di curarli tutti nei reparti di terapia intensiva (come è già un po’ avvenuto a Lodi e Cremona), uno non ha più dubbi: non solo sono giuste le misure prese ma è ancora più giusto lanciare l’allarme.

L’allarmismo ritardato

Ora, il punto che riguarda l’informazione è proprio quello dell’allarme. E qui forse non basta la matematica, anche perché i numeri sono infiniti e ce ne sono molti altri da considerare. E a proposito di numeri partiamo dal paziente zero. Ma se in Cina pare ormai assodato che i primi casi di Coronavirus risalgano all’inizio di agosto, registrati dal medico eroe che poi è morto per aver preso il contagio, cercare oggi il paziente zero in Italia non ha nessun senso, perché con ogni probabilità quel virus gira da noi e nel resto del mondo dalla fine di agosto, in una sequenza di sintomi parainfluenzali, che avendo una letalità molto bassa non è stata testata. Questo può significare una sola cosa: che per cinque mesi siamo andati avanti normalmente, senza bloccare l’economia e senza additarci al mondo come degli appestati, mentre il Cv ci aveva già infettati, e che i suoi morti sono finiti nel conto dell’influenza stagionale che nel suo picco aveva superato i duecento decessi. A conferma di tutto questo, c’è il fatto che i virologi avrebbero scoperto uno specifico ceppo italiano mutato dall’originale: ma il virus per mutare ha bisogno di tempo, segno inequivocabile che non è arrivato a gennaio, quando è partito l’allarme della Cina.

Ora, restando nel campo della logica, è possibile pensare che il virus diffuso nel mondo dalla fine di agosto, senza che nessuno lo sapesse e potesse prendere le misure suggerite dall’Oms per isolarlo, abbia numeri relativamente elevati solo nel Nord Italia? E non in Inghilterra, in Germania, in Francia, paesi che come noi hanno avuto continui contatti con i cinesi? Francamente no. Alla fine parliamo di una forma simil-influenzale che ha un tasso di letalità attorno al 3 per cento degli infetti, e forse meno, se teniamo conto dei possibili casi non registrati perché asintomatici. Di polmonite sono morte in Italia nell’inverno 2017/2018 secondo l’Istat 14 mila persone, senza che nessuno si sia mai preoccupato lanciando incredibili campagne stampa. Ma quanto ci costerà alla resa dei conti stravolgere la vita di milioni di persone e mettere in ginocchio la nostra già traballante economia, segnalando al mondo che l’Italia è come un lazzaretto che galleggia nel Mediterraneo? Quanto costerà anche in termini di salute e di letalità, la perdita di chissà quanto posti di lavoro per questa crisi? Faccio un esempio: la Confcommercio Toscana ha notificato che solo a Firenze nel mese di gennaio la perdita di turisti cinesi è costata 128 milioni di euro, ma che da adesso in poi si aprono scenari apocalittici, con addirittura il blocco totale dei flussi turistici e degli eventi. La Confesercenti di Firenze segnala già ora un meno 50 per cento negli alberghi soltanto di prenotazioni.

Il panico e la cultura come antidoto

E allora, l’impressione è che se alcune delle misure prese sono necessarie, anche perché richieste espressamente dall’Oms, il tam tam giornalistico è stato quantomeno un po’ troppo esagerato. Perché è evidente una discrepanza clamorosa tra l’attuale pericolosità del Coronavirus e il panico esponenziale provocato dal tambureggiante bombardamento mediatico. C’è qualcosa che non capisco se il Teatro della Scala ha chiuso subito i battenti al primo contagio mentre nella seconda guerra mondiale l’aveva fatto soltanto dopo il 15 agosto del 43 perché l’avevano buttato giù le bombe. Quando chiesero a Winston Churchill di tagliare i fondi della cultura per sostenere lo sforzo bellico, lui rispose: «Ma allora per cosa combattiamo». Certo, adesso siamo in un altro mondo e abbiamo a che fare con un’altra classe dirigente. La verità è che è il panico da contaminazione virale il problema più urgente da affrontare, con tutte le conseguenze economiche e sanitarie del caso: si vietano gli affollamenti e poi si intasano le strutture ospedaliere con gli ipocondriaci. Bobby Duffy, direttore della sezione inglese di Ipsos a Londra, sostiene che il panico «è il risultato di percezioni che per definizione sono errate», e così altera la proporzione tra fenomeni ed eventi. Forse bisognerebbe cominciare a guardare il pericolo da un’altra angolazione. Magari ne guadagneremmo tutti qualcosa.

Nella foto in apertura un paritcolare di:

Yoshitomo Nara
B. 1959
FIRE
signed, titled and dated 2009 on the reverse
acrylic on wood panel
35 3/8 by 35 3/8 in. 97.5 by 97.5 cm.
Estimate  700,000 — 900,000 USD
Sotheby’s 06 MARCH 2020 NEW YORK

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