Muse, compagne, rivali. Le parabole delle consorti di Mario Sironi, Giorgio de Chirico e Lucio Fontana hanno seguito traiettorie controverse.
L’ 8 marzo è data significativa in quanto ci invita alla Festa della Donna. Quanto a me, con un certo divertimento, vorrei dedicare questa ricorrenza alle Vedove d’Artista. Questa mia rivisitazione storica, dovrebbe essere presa a cuore da un museo che voglia riunire ed esporre un ampio corpus di ritratti di mogli e di amanti, di mano dei loro cari scomparsi. Qualora mancassero i ritratti, a soccorrere l’eventuale curatore ci sarebbero sempre le testimonianze fotografiche. Del resto qualche carenza sarebbe comprensibile, se il maestro storico ha aderito a una disciplina espressiva estranea alla figurazione.
I volti in effigie di alcune di queste signore sono specchi rivelatori del loro intuito e, se mi è consentito, della loro ferocia; pronte a indossare le vesti di protagoniste in prima linea del mercato in costante ascesa dei loro celebri amati. Prima e dopo il decesso.
Mario Sironi, del tutto carente di pathos intimista, non ha mai eseguito ritratti della consorte prima della separazione, e neppure di Mimì Costa, successiva compagna di vita. Fascista innocuo, ha 76 anni quando viene ricoverato a Milano per una broncopolmonite. È il 5 agosto del 1961. Muore una settimana dopo. Gli sono accanto Mimì Costa e il fedele segretario Willy Macchiati. Possiede ancora il fiato per invitare entrambi a caricare su un camion tutti i dipinti – firmati e non firmati – e i disegni, e a farli sparire prima che la moglie
se ne accorga.
Fa seguito un interessante copione: la ancora legittima signora Sironi si appella ai tribunali quando i quadri del defunto appaiono sul
mercato. Il gallerista milanese Ettore Gianferrari la sostiene, diventando l’accusatore implacabile di Willy Macchiati. Il fedele segretario di Sironi finisce in carcere per aver firmato di suo pugno una cinquantina di dipinti venduti a gallerie e a collezionisti. Solo due decenni dopo, le vicissitudini dei veri-falsi di Sironi hanno trovato un solido assestamento.
Giorgio de Chirico (la d di de dovrebbe sempre essere scritta in minuscolo, in quanto connotazione nobiliare – de Chirico ci teneva molto!) invece non ha avuto amanti ma, a distanza di tempo, due consorti quanto mai impegnative. Ricordiamo la fresca bellezza di Raissa Lork ballerina di danza classica di origine russa. Il ritratto omonimo è stato eseguito da de Chirico nel 1929. La seconda è Isabella Far Pakszwer. Giorgio de Chirico, innamoratissimo, la mette in posa a fianco del cavalletto in più occasioni, esaltandone l’espressività del viso e il colore dei capelli. Il corpo di Isabella con il trascorrere degli anni si fa sempre più fragile, ma in compenso aumenta la sua grinta. Da musa ispiratrice, verso la metà degli anni Sessanta diventa nemica ignobile e implacabile, appellandosi al Tribunale di Roma per interdire il marito, secondo lei incapace di intendere e di volere. Ben cosciente di possedere un patrimonio immenso di valori in dipinti, procede decisa e motivata, per impedire al celebre sposo, oramai storicizzato, e proficuamente ricompensato dal collezionismo, di vendere i quadri di nascosto ai galleristi in visita, quando lei non è in casa. Ma il giudice respinge la richiesta e i galleristi in visita… ne approfitteranno largamente.
Di Teresita Fontana abbiamo numerosi – e terribili – ritratti fotografici. Quando lui era in vita Teresita ignorava la sperimentazione astratta del marito, e lui del resto era ben contento di non averla tra i piedi quando lavorava. La storia di Lucio Fontana e del suo mercato inizia ad essere prodigiosa, con rare pause, solo verso la metà degli anni Settanta. Presumibilmente, a metà degli anni Cinquanta, di soldi ne aveva pochi. Gli viene in soccorso l’amico collezionista di Torino Joe Cohen, antiquario di tappeti, acquistando un centinaio di opere del ciclo Concetto Spaziale. Ognuna per 25.000 lire. Fontana muore nel 1968. La sua vedova, con intuito felino, diventa subito manager del defunto, creando una vera e propria impresa.
Per realizzare il Catalogo Generale, dà inizio all’archiviazione delle opere sparse in mezzo mondo, chiedendo un contributo per ogni scheda supportata da fotografia. Quasi tutti i collezionisti aderiscono alla sua richiesta. Ma non Joe Cohen, sconcertato dalla richiesta, che ritiene spregiudicata immorale e immotivata, dato che aveva sostenuto finanziariamente il suo amico Lucio, e quindi il suo ménage con Teresita, quando ancora l’artista era del tutto o quasi sconosciuto. E non certo per un miraggio speculativo, impensabile negli anni Cinquanta in tutto il comparto dell’arte contemporanea. Incontestabile. Ma, ahimè, non avendo voluto versare l’obolo preteso, i dipinti in suo possesso non appaiono nel Catalogo Generale delle Opere di Lucio Fontana, non hanno diritto di circolazione, di esposizione, di mercato, mancando il numero di archivio che solo ne codifica l’autenticità. Joe Cohen è oramai morto, ma non ha mai chiesto giustizia.