“Il carattere non permanente di un’esposizione d’arte induce un’esaltazione speciale, riassunta nella convinzione che potrà non essere mai più possibile vedere qualcosa che essa offre – qualcosa che giunge da molto lontano, o da un’impenetrabile collezione privata, o un confronto tra opere, o la riunione di un gruppo di esse. Potrebbe essere l’ultima occasione, e così ci si va.”, scrive lo storico dell’arte Francis Haskell in conclusione al suo libro “La nascita delle mostre”, pubblicato nel 2000 dalla Yale University.
Oggi il fenomeno delle esposizioni temporanee è ampiamente diffuso, spesso per la sua attrattiva commerciale oltre che per la sua capacità di coinvolgere il grande pubblico. Alcuni studiosi e accademici, dunque, non esitano a condannarlo in quanto tradirebbe il vero spirito dell’arte e auspicano un ritorno ad una “Art for Art’s sake”, un’arte fine a se stessa.
Prima di schierarsi pro o contro tale posizione, tuttavia, sembra utile adottare uno sguardo rivolto al passato e privo di pregiudizi. A questo scopo il libro di Haskell fornisce dei punti di riferimento ineludibili, guidando il lettore attraverso la storia delle mostre a partire dalla Roma del Seicento fino agli anni ’30 del secolo scorso. In prima battuta, le esposizioni erano accompagnate alla celebrazione di santi patroni nelle città italiane del XVII secolo. Nel XVIII secolo vennero promosse da lasciti di collezionisti reali come il duca d’Orléans,il cui patrimonio giunse in Inghilterra nella galleria di Pall Mall. A Parigi la passione per le mostre fu stimolata dai numerosi capolavori italiani che pervennero con le razzie di Napoleone, riaccendendo l’entusiasmo per l’arte religiosa, vietata fino a pochi anni prima. Ciò che rimane costante è la volontà di omaggiare gli antichi maestri: nel Seicento a Roma mostrare i loro quadri o sculture durante le esposizioni annuali serviva a testimoniare l’antichità o la ricchezza delle famiglie prestatrici.
Napoleone non a caso scelse di esporre al Louvre opere del Rinascimento italiano o di Pittura veneta del Cinquecento per glorificare la propria vittoria. Dunque, neanche in passato le mostre erano fini a sé stesse.Tuttavia, è innegabile che tali iniziative hanno contribuito a effettuare ricerche o confronti tra scuole e correnti artistiche o aporre l’attenzione su capolavori altrimenti ignorati. Molte delle opere italiane minuziosamente catalogate al Louvre, infatti, prima di allora erano comparse solamente nello scritto“Vite dei Pittori” di Vasari o nella “Storia pittorica dell’Italia” di Lanzi. Sulla stessa scia vennero organizzate le mostre della British Institution a metà ‘800, in perenne contrasto con la Royal Academy, un conflitto in cui ebbe una parte Turner stesso. La querelle tra antichi e moderni, tra la valorizzazione di un’arte genuinamente inglese e l’ammissione di influssi stranieri, specie italiani, erano al centro dei dibattiti.L’evoluzione delle dinamiche storiche nel periodo antecedente e immediatamente successivo alla Grande Guerra portò, poi, all’intrusione dei nazionalismi all’interno delle gallerie e dei musei.
Ciascuno era pronto a dimostrare la grandezza degli artisti della propria nazione, specie in Germania e in Italia. Come vide bene il filosofo Walter Benjamin nel suo celebre saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” l’arte viene messa al servizio di ideali politici e in particolare del fascismo. Molto interessante è il capitolo “Botticelli al servizio del fascismo” che descrive i retroscena di una mostra organizzata da Lady Chamberlain a Londra con la collaborazione di Benito Mussolini. Quest’ultimo si impegnò per garantire che diversi capolavori italiani oltrepassassero la Manica per mostrare agli Inglesi i meriti dell’“italianità”. L’impresa, nonostante gli interessi poco artistici e molto nazionalisti del regime fascista, può essere considerata produttiva da un punto di vista intellettuale, in quanto sicuramente contribuì alla divulgazione e al confronto. Ma sorge un problema non indifferente riguardo il trasporto delle opere: nonostante i grandi vantaggi che ciò può portare alla ricerca e dal punto di vista dell’accessibilità delle opere per il pubblico, si corre il rischio di causare danni irreparabili a un patrimonio già di per sé fragile. Forse questo, ancor più delle speculazioni economiche, dovrebbe mettere in dubbio l’eccessiva diffusione del fenomeno delle mostre, privilegiando, quando possibile, approcci alternativi di fronte all’oggetto artistico. Forse che l’attuale situazione, che ci costringe a apprezzare le opere per via telematica può essere istruttiva?