Una fotografia lenta, colta, raffinata e curata nei minimi dettagli come un dipinto fiammingo. Le nature morte di Christopher Broadbent, fotografo londinese naturalizzato italiano, nella serie dal titolo Il grande incanto. Quello che resta. Storie di retrocucina richiamano le vanitas che hanno ispirato nel passato e nel presente tantissimi artisti. Un lavoro sulle immagini che rispecchia una profonda conoscenza della luce e della tecnica.
“Ho lavorato per decenni nel mondo editoriale e pubblicitario, ora descrivo cose semplici, dimenticate che attendono nella penombra una sistemazione” commenta l’autore. Nei servizi per la Condé Nast a New York o per le migliaia di campagne pubblicitarie che ha realizzato dalla fine degli anni Settanta in poi, Broadbent mette sempre in primo piano la sua concezione della bellezza compositiva, valorizzata da un’illuminazione perfetta.
“Le foto erano un misto tra redazionali e pubblicità. Cinque o sei stagioni estive nello studio Condé Nast a New York per House & Garden e Brides Magazine e 15 anni a Milano per Casa Vogue, Vogue Gioiello e altri periodici” spiega.
Ha studiato fotografia e cinematografia all’Institut Des Hauts Etudes Cinématographiques di Parigi e Agnes Varda è stata tra i suoi insegnanti. Di lei ricorda: “Agnes Varda insegnava un approccio schietto e minimalista alla fotografia. Da lei mi è rimasta una fissazione per la luce naturale”. Ma negli still-life di Il grande incanto quanto conta il decadimento e il senso della fine di un percorso vitale? “Non cerco particolari segni di decadimento. I miei soggetti hanno semplicemente esaurito la loro utilità e sono raccolti nella penombra della scullery, la retro-cucina, in attesa di una sistemazione definitiva.
Il decadimento è un richiamo velato al memento mori, è un omaggio agli ontbijtjes fiamminghi che contenevano solo un accenno rispettoso al memento mori delle origini. L’ontbijt era una reazione contro i dipinti fastosi dei padri; reazione che i francesi hanno seguito un secolo dopo con Roland de la Porte e Chardin. Io invece cerco di raccontare uno stato d’animo”.
Oggi Broadbent non ha più deadline da rispettare e prosegue nella creazione della sua fotografia con i tempi più dilatati. “Monto un set in mezza giornata con un’idea abbastanza precisa e entro la sera ho un’immagine di base con un equilibrio strutturale. Da qui, senza più pressioni temporali, sono capace di andare avanti per un mese aggiungendo e torcendo stracci e sottraendo briciole e foglie sperando di completare un racconto. Lavoro senza macchina fotografica fino al momento delle riprese. I fiori seguono il loro decorso naturale”.
E come si ottiene questa luce particolare? “Uso una sola sorgente di luce; preferibilmente la finestra o, in mancanza, una plafoniera recuperata dal set di Cleopatra (1962). Uso una Leica digitale durante i giorni di preparazione e alla fine quando tutte le cose sono andate a posto, una macchina di legno asoffietto per pellicole piane 20×25 cm e un Mac per stampare su carta cotton-rag. Non tratto le immagini in post produzione. Il set rimane montato per correzioni in loco”. Ma la maestria del fotografo ha radici lontane: “La vera tecnica deriva da i primi anni di scuola di disegno. Uso una metrica in funzione da secoli: una visione ortogonale, due o più piani prospettici per orientare l’osservatore, una figura dominante che crea zone di luce e di ombra dove piazzare gli elementi secondari in rilievo chiaroscuro e una concentrazione verso centro di toni con maggior contrasto”.
I soggetti si ripetono nella serie delle fotografie. “Sono fissato sugli utensili di alluminio da refettorio. Evocano il nostro recentissimo passato e anche la fatica; il contrario degli argenti e dei cristalli di una volta e il design di oggi. Per far durare una natura morta nel tempo bisogna usare forme consolidate. E, nei fiori, ci sono visibili segni del tempo che avanza”. Fiori, brocche e vassoi, in still-life come fosse sequenza di fotografie su un unico soggetto ricorrente. Perché? ” È l’evoluzione di otto immagini nell’arco di un mese di un mazzo di ranuncoli in una brocca che decadono passando da una foto cartolina al memento mori. Il suggerimento è venuto dal collezionista Mario Trevisan che ha curato la mostra al Ma.Co.F, Centro della fotografia italiana a Palazzo Martinengo Colleoni a Brescia, insieme al direttore del centro Renato Corsini”.