Tre romanzi di Italo Calvino e le loro immagini di copertina.
Beh, anch’io – dopo quarant’anni da quel giorno di aprile che ho visto, per ben due volte di seguito, Manhattan di Woody Allen – trovandomi prigioniero in casa, mi pongo la stessa domanda del protagonista: “Quali sono le cose, per me, per cui vale la pena vivere?” Il quarantenne Isaac Davis, impersonato da Woody Allen e autore di copioni televisivi, tiene a fianco un registratore. Con tono monologante, elenca una sfilza di musicisti scrittori e titoli, fra i quali ricordo l’Educazione Sentimentale di Flaubert, e la sinfonia Jupiter di Mozart. Il contesto culturale in cui si muoveva l’autore-attore era quello degli anni Ottanta; epicentro New York. Il mio elenco ha come epicentro Torino alla fine degli anni Cinquanta, e comprende Italo Calvino, a quell’epoca direttore editoriale dell’Einaudi e autore di tre romanzi da me molto amati: Il barone rampante pubblicato nel 1957; in copertina un particolare del Cacciatore di nidi di Peter Bruegel; Il visconte dimezzato, 1957, copertina con un disegno a colori di Pablo Picasso; Il cavaliere inesistente, 1959, copertina con un particolare della Battaglia di San Romano (Disarcionamento di Bernardino della Ciarda) di Paolo Uccello.
Tre romanzi che ho riletto in questi giorni inquietanti. Il piacere della leggerezza per alleviare il peso della quotidianità. Li ho letti per la prima volta a venticinque 25 anni. Più tardi si è aggiunto Palomar, dove, a un certo punto, su una terrazza di Roma, lo struggente protagonista “fa scorrere uno sguardo d’uccello, cercando di pensare il mondo, com’è visto dai volatili”. Esempio mirabile di uno scrittore malinconico, che eleva la prosa a fiaba poetica. Ne avevo avuta la sensazione durante la sua visita negli uffici della casa editrice Bolaffi, un giorno degli anni Settanta, per un incontro di lavoro. Trasmetteva qualcosa di più di una civile timidezza.
Oltre alla sua trilogia, le cose per cui, per me, vale la pena vivere, sono anche le tre immagini di copertina, che mi hanno suggerito alcune curiose riflessioni sulla mutevolezza dei costumi sociali e culturali. Sono tutti e tre contesti dove è penoso vivere: la copertina del Barone rampante con il particolare di Peter Bruegel mi riporta alla società contadina delle Fiandre nel Cinquecento, dove la morte faceva parte della quotidianità, e non era un evento asetticamente ospedaliero. L’immagine di Pablo Picasso sul Visconte dimezzato mi ricorda la mutazione del mercato dell’arte avvenuta all’inizio degli anni Settanta. Collezionare il maestro spagnolo – e non solo lui, beninteso – significava ormai solo acquisire un prodotto da investimento, e un simbolo di appartenenza sociale. Infine, il dipinto di Paolo Uccello sul Cavaliere inesistente mi rimanda a Ennio Flaiano. Uscito dal museo degli Uffizi a Firenze, dopo una lunga sosta davanti alla Battaglia di San Romano, scriveva impietosamente: “La regola del gioco impone la elegante accettazione di ogni idea; e non è più un mistero che oggi il cretino è pieno di idee”. Il senso estetico di Ennio Flaiano era stato giustamente offeso dal successo della Merde d’artiste di Piero Manzoni, e del Mongoloide di Gino De Dominicis, appena esposto in carne ed ossa – che vergogna! – alla Biennale di Venezia. Indimenticabili quegli anni Settanta.