Maybe it can be different è un’espressione che incarna l’auspicio principale di Esther Kläs nella sua mostra in programma fino al 18 aprile presso la Fondazione Giuliani di Roma: è la speranza di potersi differenziare da una contemporaneità che rende la realtà convenzionale e stereotipata, ostacolandone un’autonoma interpretazione.
Attraverso disegni, sculture e video l’artista tedesca esprime una visione concettuale aperta a varie letture, soprattutto libera e immune da ogni tipo di omologazione. Anche in questa sua ultima esposizione risulta difficile definire un principio e un fine precisi, nonostante le opere siano riunite dalla sperimentazione sui ‘movimenti’ e le relazioni generate in mostra, oltre che dall’interesse per la gestualità; il tutto studiato da un punto di vista rigorosamente differente.
Ad aprire il percorso espositivo tre sculture lineari in alluminio che, poste in fila sul muro, simulano il profilo di un corrimano, mentre nella sala seguente Kläs propone tre disegni a olio non figurativi: nei primi due predominano fasci blu e triangoli marroni, che nel secondo sono circondati da inserti beige, mentre nel terzo pennellate degli stessi colori riproducono, in modo stilizzato, una sorta di sipario. È una pittura densa e ‘piatta’ che, con l’aspetto di una ‘scrittura’ a pennarello, accentua la riflessione dell’artista sul concetto di accumulo, inteso come possibilità di cancellare e aggiungere elementi sul foglio con un processo democratico senza gerarchie: già in queste raffigurazioni risulta chiaro che la ricerca di Kläs, più che un percorso con obiettivi definiti e prestabiliti, è un irriducibile volontà di giungere a forme nuove e a spazi inesplorati.
Nella terza stanza lo scenario cambia decisamente: con tre alti piloni composti da un aggregato di lana, resina d’acqua e pigmento ocra, l’artista imita dei monoliti rocciosi con una pratica vicina all’artigianato. Blocchi di pietra poggiati su piedistalli che da un lato forniscono stabilità ed energia, dall’altro evocano una certa vulnerabilità dovuta ai materiali malleabili. L’affinità con il Minimalismo e con l’Arte Povera, evidente per questa estetica scarna e per il rapporto che le opere instaurano con lo spazio circostante, sono riferimenti che Kläs, forte della sua inafferrabilità, non rievoca volutamente; semmai ogni sua allusione a tendenze artistiche precedenti è solo il pretesto per contraddire e rinnovare proprio alcune norme scultoree contemporanee.
La relazione che l’opera Room 2 instaura con il quarto ambiente è evidenziata dal titolo che la caratterizza: il lavoro è composto da nove frammenti filiformi e appiattiti in alluminio che pendono dal soffitto; le loro sagome fluttuanti dialogano con i quattro disegni attorno, anch’essi dai profili oblunghi e arcuati ma intervallati da dense chiazze blu. Si tratta di un insieme di rapporti tra i lavori esposti che, attraverso distanze e ritmi ben precisi, entrano in tensione e comunicano a vicenda, delineando uno scambio reciproco che incarna il vero elemento critico della mostra, ovvero un’attenta indagine sulla forma astratta.
Dieci analoghe sculture pendenti e curvilinee, non circondate dai disegni, riempiono la sala successiva. Nonostante siano simili alle precedenti, queste forme risultano sempre variabili nella loro ripetizione grazie alla malleabilità e all’ondulazione fornita da Ester Kläs. Dato che siamo invitati a passare nello spazio tra le due file affiancate in cui sono disposte le opere, ognuno di questi lavori stabilisce un dialogo non solo con quello di fronte e con lo spazio circostante, ma anche con la fisicità dell’osservatore. Questo diventa una componente essenziale della mostra in quanto le dinamiche interne del gruppo di sculture, richiedendo di essere decifrate da innumerevoli punti di vista, orientano in modo inatteso i movimenti.
L’interesse verso la relazione che si instaura tra più sagome è centrale anche nelle ultime due sale. Green/black è un tappeto in lana su cui l’artista ha cucito dei profili sfalsati di due coppie di figure stilizzate con le braccia protese in avanti; come nei suoi lavori precedenti anche il corpo umano con la sua gestualità e i suoi spostamenti diventa un riferimento astratto generatore di espressioni formali nuove e autonome. Ciò avviene anche nel video posto a chiusura della mostra in cui unico protagonista è il corpo della stessa Kläs che, simulando con i movimenti degli arti la posizione delle figure cucite, cammina tentennante sondando lo spazio: una rappresentazione fisica e simbolica della sua necessità di indagare e varcare nuovi terreni artistici.
Le inversioni di scala, i movimenti visivi e le relazioni spaziali suscitate in mostra rendono le opere delle presenze ambigue e misteriose che, in quanto tali, necessitano di un approfondimento mentale tutt’altro che prestabilito. Alterandone la percezione a livello concettuale ed emozionale, sculture e disegni introducono l’osservatore proprio a un percorso interpretativo personale e di conseguenza variegato. L’invito principale è quello di approcciarsi alla mostra nello stesso modo sperimentato da Esther Kläs: partendo da zero senza preclusioni o imposizioni mentali ed espositive, spinti dalla sola voglia di esplorare confini nuovi e forme differenti. Farlo sempre con una rinnovata libertà è paradossalmente l’unico vincolo posto dall’artista.
Questo contenuto è stato realizzato da Mario Gatti per Forme Uniche.