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All’opera d’arte non interessa nulla della verosimiglianza

Renè Magritte, L'uomo con la bombetta
Renè Magritte, L’uomo con la bombetta

La verosimiglianza non è un criterio utile a giudicare un’opera d’arte. Luigi Pirandello l’ha dimostrato in maniera efficace e inequivocabile.

C’è un vecchio adagio che spesso finiamo per dimenticare che recita “La realtà supera a fantasia“. Sembra solamente una frase retorica – utile ad esaltare gli imprevedibili sentieri che la vita ci può presentare – priva di un reale riscontro pratico, ma assume un significato utile e profondo quando proviamo ad applicarlo alla dimensione artistica. Soprattutto le arti che hanno a che fare, ognuna a modo loro, con la narrazione – pensiamo dunque alla letteratura, al cinema, al teatro – vengono spesso analizzate alla luce della verosimiglianza e del realismo. Questi criteri, ad un appassionato esperto, paiano di certo limitati e relativi, quasi inutili al fine di analizzare un’opera.

Dove sta scritto, infatti, che un’opera di fantasia dev’essere verosimile?

Proprio perché scaturita dalla fantasia dell’artista questa dovrebbe muoversi al di là dei vincoli della realtà, libera di creare un proprio mondo a sé stante. Dovrebbe essere a questa sua dimensione personale – con regole e caratteristiche precise – che l’opera deve una certa coerenza intrinseca, necessaria perché la vicenda si sviluppi nella maniera più efficace possibile. Il debito di un’opera è quasi sempre, perciò, totalmente interno e autoreferenziale. Ma anche ponendo il caso di voler uscire dal circostanziato ambito dell’invenzione e provare dunque a confrontarla con la realtà, ci dovrebbe venire in aiuto la frase con cui si apre questa riflessione: “La realtà supera spesso la fantasia”. Appare ancora più assurdo, ripensato in questi termini, valutare negativamente un’opera perché poco aderente al reale, poco probabile, impensabile nel suo svolgersi, quando spesso la realtà si muove in territori molto più vicini all’impossibile di quanto non faccia l’arte.

Cecily Brown

In quello che è forse il suo romanzo più famoso, lo scrittore Emmanel Carrère racconta di un caso veramente singolare. Al centro de L’avversario c’è Jean-Claude Romand, medico e padre di famiglia, che nel giro di una notte uccide brutalmente i genitori, la moglie e i due figli. Una tragedia le cui motivazioni apparirebbero inaccettabili ai più, ma con uno sforzo di immedesimazione nelle tenebrose vie umane in fin dei conti possiamo comprendere possano rientrare in qualche casistica criminale. Quello che è veramente assurdo è la catena di menzogne che Romand ha costruito in quarant’anni e che infine l’hanno (forse) portato a commettere simili atrocità. Infatti il nostro medico, ricercatore presso l’OMS, medico non lo era affatto: bocciato all’esame per accedere al secondo anno di medicina Romand ha abbandonato gli studi. Questo non gli ha impedito di far credere a tutta la sua famiglia, a tutta la comunità in cui viveva, di essere un importante professionista, di avere importanti conoscenze, di essere rispettato nel settore, di essere impegnato quotidianamente, di compiere numerosi viaggi di lavoro, di guadagnare così tanto da mantenere uno stile di vita benestante; di essere insomma un uomo di grande successo, pur rimanendo estremamente umile. Eppure niente di tutto questo era vero. Non ha mai lavorato in vita sua, vita che spendeva architettando le sue menzogne passeggiando per i boschi. Come ha fatto a vivere la sua vita in questo modo? La risposta la lasciamo al romanzo di Carrère. Noi possiamo chiederci piuttosto: come ha fatto lo scrittore a inventarsi una storia tanto improbabile? Solamente leggendo poche righe di trama appare del tutto impensabile crederla anche solo verosimile. Bene, Carrère non ha dovuto inventarsi nulla: perché è tutto vero, realmente accaduto. Ciò che lo scrittore racconta è un mero fatto di cronaca, né romanzato né modificato. La realtà supera la fantasia.

Pablo Picasso, Nude in an Armchair (1909)

Affidiamoci dunque alle parole di Luigi Pirandello – che ha posto a commento de Il fu Mattia Pascal, proprio a seguito delle critiche che stiamo cercando di confutare – per sottolineare ulteriormente l’inutilità nel richiedere verosimiglianza ad un’opera d’arte, quando la stessa realtà spesso si rivela inverosimile:

La vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità. Un caso della vita può essere assurdo; un’opera d’arte, se è opera d’arte, no.

Viene da sé concludere la sterilità di una simile critica all’opera d’arte, che realistica o di fantascienza che sia, non deve nulla a nessuno se non a se stessa. E anche quando questa vada a sfiorare, ma anche sconfinare, i limiti dell’assurdo, ci sarà sempre la realtà (che abbiamo visto essere più assurda della fantasia) pronta a giustificarla.

Riportiamo in chiusura, il caso di cronaca che lo stesso Pirandello ha aggiunto alla postfazione de Il fu Mattia Pascal per rispondere definitivamente alle critiche sulla scarsa verosimiglianza del suo romanzo. Il testo è tratto dalle pagine del Corriere della Sera del 27 marzo 1920, dunque circa vent’anni dopo la prima edizione del testo pirandelliano:

L’omaggio di un vivo alla propria tomba

Un singolare caso di bigamia, dovuto all’affermata ma non sussistente morte di un marito, si è rivelato in questi giorni. Risaliamo brevemente all’antefatto. Nel reparto Calvairate il 26 dicembre 1916 alcuni contadini pescavano dalle acque del canale delle «Cinque chiuse» il cadavere di un uomo rivestito di maglia e pantaloni color marrone.

Del rinvenimento fu dato avviso ai carabinieri che iniziarono le investigazioni. Poco dopo il cadavere veniva identificato da tale Maria Tedeschi, ancor piacente donna sulla quarantina, e da certi Luigi Longoni e Luigi Majoli, per quello dell’elettricista Ambrogio Casati di Luigi, nato nel 1869 marito della Tedeschi. In realtà l’annegato assomigliava molto al Casati.

Quella testimonianza, a quanto ora è risultato, sarebbe stata alquanto interessata, specie per il Majoli e per la Tedeschi. Il vero Casati era vivo! Era, però, in carcere ancora dal 21 febbraio dell’anno precedente per un reato contro la proprietà e da tempo viveva diviso, sebbene non legalmente, dalla moglie. Dopo sette mesi di gramaglie, la Tedeschi passava a nuove nozze col Majoli, senza urtare contro nessuno scoglio burocratico.

Il Casati finì di scontare la pena l’8 marzo del 1917 e solo in questi giorni egli apprese di essere… morto e che sua moglie si era rimaritata ed era scomparsa.

Seppe tutto ciò quando si recò all’Ufficio di anagrafe in piazza Missori, avendo bisogno di un documento. L’impiegato, allo sportello, inesorabilmente gli osservò:

– Ma voi siete morto! Il vostro domicilio legale è al cimitero di Musocco, campo comune 44, fossa n. 550… Ogni protesta di colui che voleva essere dichiarato vivo fu inutile. Il Casati si propone di far riconoscere i suoi diritti alla… resurrezione, e non appena rettificato, per quanto lo riguarda, lo stato civile, la presunta vedova rimaritata vedrà annullato il secondo matrimonio.

Intanto la stranissima avventura non ha punto afflitto il Casati: anzi si direbbe che l’ha messo di buon umore, e, desideroso di nuove emozioni, ha voluto far una capatina alla… propria tomba e come atto di omaggio alla sua memoria, ha deposto sul tumulo un fragrante mazzo di fiori e vi ha acceso un lumino votivo!”

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