Un virus si aggira da sempre nel mondo dell’arte, ed è la perfidia sottile e dannosa che falsifica anche solo un frammento espressivo. “Dio! Domani mattina, aprendo la finestra, non farmi trovare davanti a una marina di Carrà”. È un opinabile motto di spirito di Ennio Flaiano. Se lo scrittore avesse fatto di professione il critico d’arte, sarebbe stato psicologicamente eliminato o querelato dalle vedove degli artisti storicizzati.
L’invocazione di Flaiano è superficiale e ingiustificata. Appartiene alla tradizione orale da salotto che accusava la signora Carrà di costringere per ore al cavalletto l’anziano consorte, allo scopo di fargli eseguire solo soggetti di ambito marino, con ogni possibile variabile cromatica e di collocazione figurale. Il mare era quello della Versilia, dove la coppia soggiornava a lungo e in qualsiasi stagione. Il Carrà degli anni Sessanta ne ricavava tristi scenografie, barche di pescatori in un’acqua invernale dal riflesso torbido, o l’immagine metafisica della spiaggia estiva del “Molo”, a Torre San Giovanni, del tutto deserta.
Negli anni postbellici di ripresa economica le tematiche paesaggistiche erano assai richieste dai mercanti d’arte. Il nuovo collezionismo privilegiava i maestri del Primo Novecento, non tanto per la qualità compositiva, quanto per la firma di una presenza storicizzata, considerata rassicurante a livello di investimento. Molto ambite erano quelle di Giorgio de Chirico, Ottone Rosai e Filippo De Pisis. Flaiano dimenticava che Carlo Carrà ha apportato un indispensabile contributo al pensiero di F.T. Marinetti nella stesura, avvenuta nel 1910, del Manifesto del Movimento Futurista.
Carrà muore il 13 aprile del 1966, data stabilita dalla scheda biografica, critica e filologica di Massimo Carrà: “Nel marzo ha ancora dipinto Natura morta con calice verde e Natura morta con bottiglia e bicchiere, suo ultimo quadro”. Nato a Quargnento, un paese dell’alessandrino, nel 1881, si trasferisce a Milano nel 1895, e quattro anni dopo è tra i pittori che decorano il Padiglione dell’Esposizione Universale di Parigi. In quell’arco di tempo scopre e si dedica alla lettura delle liriche di Rimbaud, Baudelaire e Mallarmé. Nel 1900 è a Londra dove frequenta gli anarchici fuggiti dall’Italia dopo l’attentato a Monza contro Umberto I. Ha quindi l’occasione di leggere i testi rivoluzionari di Bakunin, Steiner e Marx; questo tassello biografico è indispensabile per comprendere i motivi del costrutto pittorico del Funerale dell’anarchico Galli, del 1911. L’opera è mirabile e di ambito Futurista. Nel 1904, a Milano, Carrà assiste al corteo funebre dell’anarchico Galli, ucciso durante uno sciopero.
Nella sua Autobiografia, scrive:
Vedevo innanzi a me, tutta la bara coperta di garofani rossi ondeggiare minacciosamente sulle spalle dei portatori; vedevo i cavalli imbizzarrirsi, i bastoni e le lance, sì che parve la salma avesse da cadere da un momento all’altro in terra e i cavalli la calpestassero. Fortemente impressionato, appena arrivato a casa, feci un disegno di ciò che ero stato spettatore. E fu il ricordo della drammatica scena che mi fece dettare per il manifesto tecnico della pittura futurista la frase: “Noi metteremo lo spettatore al centro del quadro”
Voglio qui precisare un dato curioso: del dipinto è di linguaggio Futurista, ma il bozzetto è ancora di linguaggio Divisionista. Questa prima stesura su carta rappresenta il momento dell’addio al provincialismo dell’Italia di quegli anni, quindi la reliquia di un pittore in rivolta, che ha trovato una nuova casa appropriata nel Movimento Futurista. Dunque un messaggio rivoluzionario nei confronti dell’accademismo, che trascurava i contenuti per privilegiare gli aspetti formali, chiudendo la porta a un Futuro già iniziato.