Dal gruppo di San Lorenzo con Francesca Woodman all’attuale mostra alla Galleria Alessandra Bonomo di Roma. Dai collage alla scultura abitabile per viaggiare e far viaggiare. Intervista a Sabina Mirri
In seguito al DPCM dell’otto marzo che ha disposto la chiusura di tutti i musei, anche la Galleria Alessandra Bonomo di Roma è temporaneamente chiusa al pubblico, in attesa delle nuove disposizioni governative.
Dal 18 febbraio, la galleria di via del Gesù, ospita le opere di Sabina Mirri. L’artista, nata a Roma con origini svizzere-tedesche, vive e lavora a Petrolo in provincia di Arezzo. La sua prima formazione avviene al Liceo Artistico di Roma, studiando pittura con Giulio Turcato, per poi esordire nel 1976 con una personale alla Galleria La Margherita Negli anni ’80 partecipa alle prime rassegne dedicate da Achille Bonito Oliva alla Post Transavanguardia e condivide le avventure artistiche con i compagni del gruppo di San Lorenzo. Tra le amicizie più significative c’è quella con Francesca Woodman, con la quale frequenta lo spazio caotico e pieno di stimoli della libreria-galleria Maldoror. Trasferitasi poi a New York, prende parte a diverse mostre personali e collettive.
In questa occasione ci parla del suo passato e dei suoi progetti futuri; in una mostra che invita a non fermarsi sulla superficie delle cose, riscoprire il piacere del segno e lasciarsi guidare dalle profondità del nostro inconscio.
Vorrei iniziare dalla grande scultura al centro della sala: la riproduzione in scala dello Studiolo di San Girolamo, del celebre dipinto di Antonello da Messina. Siamo curiosi di sapere da dove è nata l’idea di ricostruirlo?
Il progetto dello Studiolo nasce nel 2014. È un quadro che mi ha sempre affascinata. Quando da ragazza andai a vederlo alla National Gallery rimasi colpita dalle sue dimensioni, non avevo idea che l’originale fosse così piccolo e mi stupii del contrasto con la grandiosità del suo significato. San Gerolamo è intento a tradurre la Bibbia nel suo studio all’interno di un’ampia costruzione gotica. Trasmette l’idea di grandiosità della sua figura, della religione e dello spazio che lo circonda. Per questo ho voluto ricostruirlo. Ho ridisegnato le proporzioni in base al mio vero studio e l’ho collocato al suo interno. È una scultura abitabile costruita per essere usata. È diventata parte integrante del mio studio. In questo caso abbiamo chiesto a Sandro Chia se voleva partecipare al progetto con qualcosa che potesse arredare, nel senso più alto del termine, lo spazio. Ci ha dato tre bellissimi disegni recenti. Sandro Chia per me è stato una fonte d’ispirazione molto importante, lo considero un grande artista, è lui la radice della mia pittura.
Parlando delle tue opere pittoriche, per questa mostra hai realizzato una serie di collage il cui protagonista è un personaggio particolare, un animale che si lascia trasportare dai vizi del fumo e dell’alcool. Chi è e da che immaginario viene?
È un coniglio selvatico. Il coniglio nell’immaginario dei bambini è collegato alla tenerezza, alla morbidezza, ma spesso i conigli domestici vivono male, in gabbia. Quest’immagine proviene dalla cultura del nord, dalle mie origini, da mia madre svizzero-tedesca. Ho iniziato i miei primi lavori citando Helen Beatrix Potter, scrittrice e illustratrice inglese della fine ‘800 inizi ‘900, che ha inventato un personaggio dal nome Peter Rabbit, un coniglio appunto. A fine anni ‘70, feci un’enorme scritta sulle pareti di Via della Scrofa a Roma per sdrammatizzare gli slogan politici che si facevano in quel momento. Scrissi il nome di questa autrice, generò scalpore tra la gente, che si chiese chi fosse. In questo caso le lepri che girano nelle pareti della galleria sono ambigue, indossano dei tacchi a spillo e sono animali che non hanno sesso.
La lepre indossa dei tacchi a spillo e non è la sola, penso ad esempio al piede della “Bevitrice di Gin Tonic” che rende la forma di un tacco. Questa immagine sembra anche fluttuare grazie ad un paio di ali, cosa sta a rappresentare?
Quest’immagine viene da un lavoro che feci anni fa, una scultura intitolata “Piede con il tacco”, è un lavoro su cui ho ragionato molto. La donna che nasce con una protuberanza ossea a forma di tacco. L’idea feticista del tacco delle donne, simbologia di qualcosa che presuppone femminilità, ma allo stesso tempo costrizione e violenza. I piedi del coniglio si trasformano in tacchi, come quelli della donna nel disegno in omaggio all’incisore inglese Hogarth. Il coniglio selvatico è un animale che si deve nascondere, è un’animale della notte, della luna, vive sotto terra, è un’animale che deve combattere per la sopravvivenza. Non vorrei allargare troppo il discorso sulla figura femminile, ma lascio aperta l’interpretazione. Un’altra figura femminile per me importante è Lee Miller. La grande fotografa e modella di Man Ray che viene fotografata a sua volta nel bagno di Hitler. Accanto alla vasca ci sono i suoi scarponi, gli anfibi che si è tolta per lavarsi. L’anfibio si può vedere come la controparte del tacco.
Negli anni ’80 prendi parte al gruppo della Post Transavanguardia, sulla scia di un “movimento che recupera la felicità espressiva della manualità (pittura, scultura, disegno)” come afferma Achille Bonito Oliva. Ritrovo nei tuoi collage un grande senso manuale, se dovessi darti una definizione, quale sarebbe?
Mi considero una pittrice e disegnatrice. Io amo la pittura e quando vado a vedere una mostra (che sia la pittura di Leonardo o quella di Peter Doig) cerco di avvicinarmi al quadro il più possibile. Cerco di capire se ci sono delle sfumature, se c’è un disegno preparatorio, è un processo sensuale che mi tocca in maniera fisica. Realizzo i miei collage con la carta velina incollata su pannelli di legno. Uso queste carte colorate, trasparenti, quasi come fossero delle velature, aggiungendole e togliendole in base al colore a cui voglio arrivare. Invece di dipingere, uso la carta trasparente. Sono tanti strati che, attraverso la tecnica della velatura, vanno a formare il quadro. C’è bisogno di guardare i miei collage da vicino per capire il piacere che ho avuto nel realizzarli. Prima nel disegnare, poi nello sfumare, ritagliare la carta e poi incollarla. Sono tanti passaggi. L’abitudine dell’arte di oggi è riconoscere l’immagine in totale, senza interessarsi a come è stata realizzata. Vorrei che nel vedere le mie opere ci fosse il piacere di trovare e riscoprire il segno.
Nelle tue opere appaiono libri di artisti come Beuys, Duchamp, Jasper Johns ecc. Sono citazioni al tuo background artistico?
Si, decisamente. Sono libri di artisti che possono sembrare uno diverso dall’altro, ma non lo sono. Mi hanno accompagnato nella mia carriera, hanno formato quella che sono ora. Come io amo la carta, amo anche comprare libri, sfogliarli, guardare le immagini, è una forma feticista anche questa: quella del possesso. Amo la loro consistenza, la carta che li compone, ho sempre lavorato sulla carta, forse mi considero disegnatrice prima che pittrice. La carta è sempre stata la materia che sento più vicina.
Parlando di libri, mi viene in mente la libreria-galleria Maldoror, che eri solita frequentare con i tuoi compagni di avventura artistica romana dell’epoca. Tra questi ricordiamo Francesca Woodman, raccontaci del vostro rapporto, come ha influito nella tua arte?
Quando nel 1977 ho conosciuto Francesca nella libreria Maldoror, avevamo vent’anni e l’arte era già il nostro pane quotidiano. Lì abbiamo scoperto scrittori, pittori e movimenti artistici del passato che hanno segnato la nostra arte. Proprio in quella libreria è stata realizzata “La serie del guanto” di Francesca, una serie fotografica ispirata al ciclo
dell’artista tedesco Max Klinger, scoperto alla Maldoror. Quando andammo al Bar Fassi in Piazza Fiume a Roma per fare le fotografie, nessuna delle due immaginava che sarebbero diventate così famose. Sono passati quarant’anni da allora e ricordo il divertimento, l’allegria, ma anche la serietà mia come modella e di Francesca come fotografa e ideatrice della serie, nello scattare le foto. Ancora sento il sapore del Caffè con panna, di cui eravamo golose e che alla fine ci regalammo. Ho continuato a vedere e sentire Francesca sia a Roma che a New York fino a quel tragico 19 gennaio 1981. Il disegno qui sotto, è un ritratto che mi fece nel 1978 in cui sono ritratta insieme ai miei adorati conigli.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Questa mostra è solo l’inizio di qualcosa che potrà prodursi anche in futuro. Lo Studiolo può viaggiare come se fosse un piccolo satellite che si porta dietro qualcosa d’altro.Immagino un viaggio che possa inglobare artisti differenti all’interno. Auguro a questa scultura di essere usata come veicolo per viaggiare e per far viaggiare. Si può viaggiare
anche con la testa in uno studio, viaggiare leggendo. Per questo motivo ho fatto installare al suo interno una presa elettrica. Si può stare in contatto con il mondo aprendo il proprio computer. Oggi si fa un grande uso di internet, ma il mio invito è quello di non fermarsi alla superficie. Come faccio intendere nel disegno “Luca a casa di Nietzsche” in cui la coperta del letto prende la forma della Fossa delle Marianne, bisognerebbe cercare di entrare nella profondità delle cose. Bisogna studiare, concentrarsi, sacrificarsi. In fondo, anche San Girolamo si è sacrificato. Ogni cosa ha delle radici, come quando si taglia il tronco di un albero e si contano gli anelli. Tutto quanto è concatenato, fatto ad anelli concentrici e solo entrando dentro le cose, scoprendone i significati più profondi, reconditi, si ottengono grandi soddisfazioni. Lo studiolo è un po’ l’emblema di questo.
Informazioni
Sabina Mirri – Gonna be a cult character
Galleria Alessandra Bonomo, Roma.
Info: www.bonomogallery.com
Elisabetta Melchiorri