Innocenzo Odescalchi e le sue riflessioni di artista “recluso” al tempo del Coronavirus. Diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi
Non era mai successo. Nemmeno il coprifuoco della Guerra Mondiale era così rigido: tutti a casa, mattina, sera, notte. E non era mai successo che il rapporto, il contatto con l’”altro”, imprescindibile regola del vivere contemporaneo, diventasse il nostro peggior nemico. Ci voleva un pericolo invisibile, ancor più minaccioso proprio perché impalpabile, per costringerci a fare qualcosa che ormai non facciamo più: guardarci dentro. Vivere solo con noi stessi. Un riallineamento delle coscienze, che ci permette – o forse ci costringe – a rivedere certe cose con un’ottica diversa, più “pura”. Alcuni artisti italiani lo fanno con i lettori di ArtsLife: diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi, un ripensamento dell’arte come scelta di vita sociale. Ecco il contributo di Innocenzo Odescalchi (1956)…
Pensieri a domicilio
Il 3 gennaio del 2020 moriva ucciso da un attacco con drone il generale iraniano Quasem Suleimani. Quasi due mesi prima, il 17 dicembre, nella provincia di Wuhan in Cina, il primo contagiato dall’infezione Coronavirus. I due eventi sembrano lontani, senza nessuna connessione di causa-effetto. Da una parte la forza manipolatoria dell’uomo tramite l’inganno della “technè” pensa di diventare padrone della natura, la quale sembra non assecondare sempre le aspirazioni dell’uomo al suo controllo.
Io non sono a conoscenza della ricerca sulla manipolazione genetica, sperimentazione di cellule umane trapiantate nei tessuti e nel cervello delle scimmie, creando volontariamente chimere umane. Non sono a conoscenza sullo strapotere degli algoritmi con la nascita di una intelligenza artificiale che sostituisce il nostro pensiero e fà scacco a Dio.
Non sono a conoscenza della verità, ma il dubbio resta. Dante dedicò gran parte del canto XXVI dell’Inferno a Ulisse, che escogitando l’inganno del Cavallo di Troia, sfidò le leggi della natura. Condannandolo a una continua migrazione fino a oltrepassare le colonne d’Ercole per rimanere nel vuoto.
Quello che viviamo in questo periodo di domicilio coatto a causa del virus porta a svariate e amare riflessioni, anche sul mio lavoro di artista-pittore. L’arte ufficiale, quella che va per la maggiore, non nascondo che il più delle volte mi annoia. Con la sfrenata ricerca di icone iconoclaste rivestite di sociologismo, ma in realtà è status, esaltandone la propria “scaltrezza” e lo stupore delle masse in un sistema drogato..
Questi collezionisti i quali vi si identificano sono quasi sempre schiere di adulatori che citano a sproposito Marcel Duchamp. Se si vuole scuotere le fondamenta dell’arte è difficile farlo in una fiera. Purtroppo quello che dico rischia di essere banale, di andare a noia, ed è condiviso dalla maggioranza di artisti, i quali non hanno gli strumenti per reagire.
L’arte è fatta da nuove idee, ma in sostanza non può trascurare la sua dimensione spazio-temporale che fa capo ai sensi, alle percezioni. È alchimia, e come tutti i misteri non ha bisogno di spiegazioni dettagliate. Questi aspetti non possono essere ignorati neppure dai più puri concettualisti, perché con essi si comunica all’esterno.
Ozio e meditazione inducono all’illusione che si possa mettere tutto in gioco per sfondare quella porta murata da anni, riflettendo su una diversa cultura del presente. Per dare valore alle complessità del lavoro e della materia stessa, l’artista viaggia in uno spazio geo-immaginario, attraversando diversi territori alla ricerca di costante vagabondaggio. Anche la malattia covid-19 è nel nostro sentire un Leviatano che somministra porzioni di artificioso veleno. Ha in comune con certa arte la mancanza e la fine, quando essa non è una continua imitazione della creazione.
Innocenzo Odescalchi
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