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Ripetizione e digitalizzazione: comprendere la realtà attraverso l’arte di Ed Atkins

Ed Atkins, Safe Conduct, 2016. 3 channel video with sound. Courtesy the artist, Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin, Cabinet Gallery, London, Gavin Brown’s Enterprise, New York, Rome
Ed Atkins, Safe Conduct, 2016. 3 channel video with sound. Courtesy the artist, Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin, Cabinet Gallery, London, Gavin Brown’s Enterprise, New York, Rome

L’opera di Ed Atkins, protagonista alla Biennale di Venezia (2019) e al MAMbo di Bologna, ci permette di soffermarci sul concetto di ripetizione e digitalizzazione dell’immagine.

In questi giorni di isolamento forzato, condizione che ci accompagnerà per mesi, sono due le questioni che – almeno nella mente del sottoscritto – rimbalzano con maggiore frequenza e urgenza: quella che possiamo generalmente associare al concetto di ripetizione, e quella che riguarda il nostro rapporto con le immagini digitali. Certo, nulla di inedito né di sorprendente. Tuttavia la loro attualità è bruciante, non va ignorata ed è un punto di partenza. Entrambi ci interessano nella dimensione del quotidiano e la loro risonanza, oggi, è giocoforza amplificata. Il primo, che in condizioni normali chiamerebbe in causa la routine uguale a se stessa degli obblighi giornalieri, si converte qui – per chi non è costretto comunque a muoversi – nella continuazione a distanza dell’attività produttiva, nella sua virtualizzazione. Per chi invece ha la fortuna di poter essere inoperoso, la ripetizione torna in campo come modalità di scansione temporale, imposizione di abitudini, autodisciplina di isolamento: non per incapacità di sottrarsi all’alienazione produttiva ma per evitare il collasso psichico.

La seconda questione è anch’essa, non certo da oggi, uno specchio del nostro quotidiano. È però evidente e inevitabile in questo periodo il moltiplicarsi del bombardamento di immagini a cui siamo virtualmente sottoposti con costanza quasi feroce – saturazione dell’infosfera e indebolimento della psicosfera direbbe Bifo[1]. Ciò è alla luce del sole specialmente nel campo delle arti visive, che nell’ultimo mese si è dovuto comprensibilmente riassestare in una dimensione quasi completamente digitale dove in un piano univoco, su uno stesso livello, si radunano tutte quelle attività ora private della loro decisiva componente corporea, dalla fruizione di un’opera, alla consultazione di un catalogo, alla partecipazione a una conferenza: tutto è incorporato in uno stesso medium digitale. Ora, per quanto sommariamente, questa premessa evidenzia due concetti, o per meglio dire categorie, che caratterizzano profondamente l’opera di Ed Atkins (Regno Unito, 1982): l’immagine digitale, è noto, ne è il carattere fondante, la ripetizione un corollario.

Ed Atkins, Safe Conduct, 2016. 3 channel video with sound. Courtesy the artist, Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin, Cabinet Gallery, London, Gavin Brown’s Enterprise, New York, Rome

Partendo da quest’ultima, l’occasione della recente mostra collettiva al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, ora ovviamente sospesa, ci fornisce un contesto adeguato. AGAINandAGAINandAGAINand, curata da Lorenzo Balbi, indaga il tema del loop e della ciclicità nella società contemporanea attraverso opere di artisti internazionali. Tra queste, Safe Conduct (2016) assume di certo una posizione di rilievo. Un individuo – avatar che popola la maggior parte delle videoinstallazioni di Atkins – si trova davanti a quello che sembra il nastro trasportatore di un’area controlli di sicurezza in un aeroporto: ha inizio un processo, letterale, di spoliazione. Prima oggetti pericolosi come pistole, poi elementi organici, sangue, ossa, viscere; il surrogato – come l’artista preferisce chiamarlo[2] – viene fatto a pezzi, sezionato in un loop che sembra interminabile fino a che, distesosi egli stesso sulla macchina, pare oltrepassare i controlli. La circolarità del nastro può preludere tuttavia a un eterno ritorno di questo rituale abietto. La scena è accompagnata dal sottofondo musicale – parte fondamentale dell’opera – del Bolero di Maurice Ravel il cui ruolo è quello di accentuare la dimensione straniante e ripetitiva della scena, un incedere sonoro, una sorta di loop trionfale che accompagna il disfacimento del sé digitale.

Questa declinazione visiva dell’idea di ripetizione, fatta di gesti e azioni macabre e grottesche, insensate e a tratti comiche, oltre a fornire una visione surreale dello spazio specifico in questione – l’artista prende ispirazione anche dai video informativi degli aeroporti, negli anni delle rigide misure antiterrorismo – rappresenta una riflessione politica sul rapporto con la tecnologia come dispositivo di controllo, sulle contraddizioni insite nel nesso tra libertà e sicurezza. Oggi, in situazioni di emergenza che sembrano ineluttabili e forse progressive, nella Nuova era oscura secondo James Bridle, queste immagini di Atkins sembrano confermarci una sorta di presagio tristemente attuale.

Ed Atkins, Safe Conduct, 2016. Installation view, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, photo by Enrico Parrinello. Courtesy the Artist and Cabinet, London. Collection Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Possiamo da qui arrivare a quello che è probabilmente il carattere centrale della ricerca dell’artista, la riflessione intorno all’immagine digitale, ai suoi effetti nell’esperienza, attraverso la creazione di soggettività artificiali su cui innestare meccanismi emotivi e narrativi sperimentando le potenzialità e i limiti del rapporto tra realtà e finzione. In questo senso Old Food (2017-2019) – selezionata per la 58. Edizione della Biennale di Venezia – rappresenta un esempio rilevante. Diversamente da altre opere, l’aspetto narrativo è preminente, o così sembra: Atkins costruisce una realtà fiabesca in CGI in più video con ambienti e personaggi diversi, un sottofondo musicale al pianoforte (anche in questo caso in loop), misteriosi e fluttuanti sandwich a base di escrementi. Ciò che davvero accada nel mondo di Old Food è difficile a dirsi, non vi è una storia vera e propria da raccontare, né è particolarmente rilevante che ci sia; gli avatar si muovono e agiscono in uno spazio ma il loro comportamento non privilegia una logica interna, piuttosto assume senso nell’interpellare direttamente l’osservatore. Quello che accomuna, nel nonsense delle loro vicende animate, i personaggi è il loro angoscioso guardarci. Un bambino, un ragazzo, un uomo incappucciato appaiono spaventati e disperati e piangono senza sosta, rivolgendoci lo sguardo. In particolare il bambino, che versa lacrime di consistenza quasi pittorica, appare totalmente fuori controllo: costretto in uno schermo che a malapena riesce a contenerlo, isolato – creatura digitale imprigionata e che pare, forse, soffrire la sua dimensione immateriale – cerca uno scambio di sguardi, senza riuscire a comunicarci nulla. La presenza del linguaggio e di discorsi è un aspetto caratteristico dei lavori di Atkins, che doppia egli stesso i suoi surrogati: qui, invece, sembra non esserci più nulla da dire, che l’inquietudine ecceda la parola. Solo il ragazzino terrorizzato chiede chi siano «tutti i morti».

Il tema della morte è pervasivo nei lavori di Atkins e rappresenta anche uno dei punti di avvio del suo processo creativo, influenzato dalla lettura di Maurice Blanchot, il cui concetto di immagine-limite paragonato a quella di cadavere [3], è sottinteso nella creazione degli avatar dell’artista britannico. Ed è del resto il senso stesso del concetto di immagine a trovare un fondamento nel problema della morte, ovvero nel momento in cui emerge l’impulso, la necessità, di rendere presente un’assenza ed effettuare uno scambio simbolico: da corpo senza vita a immagine che lo sostituisce. Sono le rappresentazioni dei defunti a mostrarci la validità sempre attuale di questo nesso tra presenza e assenza che costituisce molte nostre consuetudini immaginative e che può trovare radici in pratiche millenarie come la fabbricazione di maschere funerarie [4]: è un’affascinante coincidenza che un’opera di Atkins si intitoli proprio Death Mask (2010-2011). Se consideriamo la storia e la teoria delle immagini sotto una lente antropologica, come ci suggerisce Hans Belting, occorre allora chiedersi come in questa si collochino le immagini digitali, candidate ora più che mai a diventare il nostro principale interlocutore quotidiano. In breve, è probabilmente esagerato affidarsi a quel termine – simulacro – che profetizza la fine della referenza e l’interruzione del rapporto tra immagine e realtà. Non c’è frattura, piuttosto un allargamento del nostro repertorio visivo. Questo perché ciò che consente l’esperienza, la percezione, la produzione immaginativa è il corpo, che è il vero luogo delle immagini[5].

Ed Atkins, Old Food, 2017-2019. Installation view, 58th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. May You Live In Interesting Times. Photo by Roberto Marossi. Courtesy La Biennale di Venezia, the artist, Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin, Cabinet Gallery, London, Gavin Brown’s Enterprise, New York, Rome and dépendance, Brussels

La storia delle immagini, da questo punto di vista, è storia delle vicende che riguardano la capacità dei corpi di immagazzinare e creare nuove rappresentazioni, dalla preistoria all’epoca dei new media. Nella loro assoluta esasperazione della finzione virtuale, i lavori di Ed Atkins recano una chiara necessità di interpellare i corpi, attraverso tracce, indici di realtà: dalla voce dell’artista alla presenza, in Old Food, della serie di costumi della Deutsche Oper di Berlino, che nessun personaggio potrà mai davvero indossare; incluso il pubblico stesso, emotivamente e fisicamente coinvolto nello straniamento dell’esasperazione virtuale. Lavorare sull’immagine digitale può prevenirne le derive alienanti. Ci ricorda Atkins: «Spinte al limite, le cose inumane – compresa la rappresentazione stessa – ci restituiscono a noi stessi, ai nostri corpi»[6].

Questo contenuto è stato realizzato da Enrico Camprini per Forme Uniche.

[1] Franco “Bifo” Berardi, Futurabilità, Roma, Produzioni Nero, 2018.

[2] https://youtu.be/yY17qZLMUcg

3] Chiara Vecchiarelli, Tra l’oltre e il dietro, in Carolyn Christov Bakargiev (a cura di), Ed Atkins, catalogo della mostra (Torino, Castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea – Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, 27 settembre 2016 – 29 gennaio 2017), Milano, Skira, p. 230.

[4] Hans Belting, Antropologia delle immagini, Roma, Carocci, 2011, pp. 173-225.

[5] Ivi, p. 35.

[6] Beatrix Ruf, Sotto l’influenza, in Ed Atkins, cit., p. 217.

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