Quando i musei diventano piattaforme di lotta politica, di solito è perché sono stati criticati dall’esterno. La rinascita globale dell’estrema destra avvenuta negli ultimi anni ha permesso ai musei di avere un ruolo politico, cosa che sembrava improbabile. Il nazionalismo xenofobo sembra opporsi in tutto e per tutto all’immagine cosmopolita e multiculturale che i musei presentano al mondo. Nonostante ciò, alle istituzioni americane è concesso promuovere una visione alternativa, che non solo affronta il trumpismo e ne evidenzia anche i suoi legami con il consenso neoliberista, ma promuove anche il lavoro di artisti che rifiutano il nazionalismo e denuncia i colpevoli e le strutture sottostanti. Tuttavia gli artisti stessi si trovano divisi fra la visione radicale di un mondo più aperto e la tentazione di rassicurare.
Questo il dilemma che si sono trovate ad affrontare tre recenti mostre a tema frontiere e migrazione.
Presentato alla Phillips Collection presso Washington D.C., da giugno a settembre di quest’anno, “The Warmth of Other Suns: Stories of Global Displacement“, a cura di Massimiliano Gioni e Natalie Bell (del New Museum), è stata la più grande delle tre mostre, con settantacinque artisti. “When Home Won’t Let You Stay: Migration through Contemporary Art“, è la mostra collettiva di venti artisti curata da Ruth Erickson ed Eva Respini, inaugurata ad ottobre e terminata il mese scorso all’Institute of Contemporary Art di Boston (anche se continuerà a viaggiare fino a gennaio 2021). “Crossing Lines, Constructing Home”, a cura di Mary Schneider Enriquez e Makeda Best, è stata ospitata negli Harvard Art Museums da settembre a gennaio, con oltre quaranta opere. Tutte e tre le mostre sono state concepite in risposta a ciò che i loro curatori vedono: un crescente senso di emergenza globale nei confronti delle migrazioni.
Sebbene la mostra presso la Phillips Collection apparisse come la più impegnata – una guida descriveva con orgoglio come il D.C. Metro system (la metropolitana di Washington) inizialmente si rifiutasse di pubblicizzarla etichettandola come troppo di parte – tutti e tre gli eventi erano chiaramente collegati al contesto politico contemporaneo.
E tutti e tre, sfortunatamente, hanno trasmesso un messaggio politico che non è né quello che intendevano né quello richiesto dalla situazione contemporanea. La mostra alla Phillips Collection ha utilizzato la storia delle migrazioni per eludere le tematiche più significative del nostro presente; la mostra all’ICA ha sviato dal tema principale della perpetrata violenza alle frontiere e la mostra di Harvard si è rifugiata in una narrazione ibrida, che confonde la distinzione tra beni e persone.
Secondo quanto riporta Artnews (Art in America), la “crisi migratoria” di cui sentiamo parlare oggi non è proprio come ce la presentano i media. Secondo le stime dell’ONU, la percentuale di migranti nella popolazione degli Stati Uniti e del Nord Europa è cresciuta gradualmente dal 1990 di circa il 15% in entrambi i luoghi e i rifugiati e richiedenti asilo costituiscono una percentuale minore di quel gruppo, ad oggi, rispetto al 1995.
Ciò che abbiamo ora è una crescente e preoccupante militarizzazione alle frontiere. Da quando, negli anni ’90, l’amministrazione Clinton ha implementato un nuovo apparato di sicurezza delle frontiere, le deportazioni negli Stati Uniti sono aumentate del 1.000 %. In Europa sono stati alzati oltre 900 km di barriera anti-migranti con la firma dell’Accordo di Schengen (che nel 1985 aveva aperto i confini intra-europei) e istituite migliaia di pattuglie navali. All’estero, le restrizioni nei confronti delle migrazioni si sono strettamente intrecciate con una politica imperialista. I governi di paesi come Messico, Guatemala, Nauru, Libia e Niger – sotto pressioni economiche, politiche e militari – sono diventati gli esecutori delle politiche di immigrazione degli stati più ricchi dell’emisfero Nord del mondo.
Sia in Europa che negli Stati Uniti, i partiti di estrema destra sono saliti al potere con slogan nativisti e razzisti, ma non sono stati loro a produrre il meccanismo delle frontiere militarizzate. La colpa sembra ricadere su quei tecnocrati di centro-sinistra e di centro-destra che mentre pronunciavano parole di apertura e accoglienza, agivano in senso opposto. Come fece Bill Clinton dopo essersi opposto ad una politica di repressione dell’immigrazione nel 1995, quando sosteneva che “è sbagliato e controproducente per una nazione di immigrati (come l’America) permettere che si abusi delle nostre leggi sull’immigrazione”. Questi politici hanno sempre dato la precedenza a discorsi anti-immigrazione piuttosto che a quelli improntati sull’apertura del Paese, di cui di solito finiscono per beneficiare migranti benestanti e ben istruiti. Per questi politici, una popolazione migrante economicamente dipendente o una forza lavoro immigrata che non può essere disciplinata dalla minaccia di espulsione ha sempre la precedenza.
Ciò che ha spinto molti curatori e musei a promuovere questo tipo di mostre incentrate sul tema delle migrazioni, è scaturito in parte dalle riflessioni sui campi di detenzione al confine tra Stati Uniti e Messico, strutture la cui realizzazione risale alla fine del ventesimo secolo. L’errore fatto da queste mostre però, è quello di essersi concentrate sulle migrazioni invece che sul reale tema, quello dell’intensificarsi dei controlli alle frontiere. Così facendo, ognuna di queste mostre ha preso in analisi un crimine e l’ha trasformato in fatto derivante da cause di forza maggiore, riducendo così questa urgenza storica ad una blanda esposizione tematica.
“Le opere riconoscono il passaggio come un’opportunità di trasformazione, nonché la causa del trauma”, così annunciava il testo a muro che introduceva la mostra di Harvard. “Migration”, ha spiegato l’ICA, “è una storia di chi siamo e di come siamo arrivati qui nel corso del tempo. Milioni di persone si spostano per una miriade di ragioni, dalla fuga dalla guerra e dalle persecuzioni religiose alla ricerca di una migliore istruzione o sicurezza finanziaria “.
Il manifesto del museo Phillips persegue l’imprescindibile civico e sociale dell’arte e responsabilizza allo stesso modo artisti e spettatori.
La mostra si sviluppa adottando una narrazione storicistica, fatto che evidenzia solo la ciclicità della storia. Al museo Phillips, “The Artist and His Mother” di Arshile Gorky (1926-1942 circa) è appesa accanto alle fotografie dell’epoca della depressione di Dorothea Lange sugli agricoltori dell’Oklahoma che fuggivano dalla Dust Bowl (le tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti e Canada tra il 1931 e il 1939) e le immagini dei primi anni del XX secolo di Ellis Island (isolotto parzialmente artificiale nella baia di New York). I pannelli scuri e schematici delle “Migration Series” di Jacob Lawrence (1940–41) erano a poche stanze di distanza. L’esperienza di Gorky come immigrato armeno, come le esperienze degli Okies di Lange e degli afroamericani di Lawrence che si spostavano dal Sud al Nord, è stata senza dubbio difficile. Ma l’effetto di questa giustapposizione, nel contesto di una mostra che rivendicava l’intenzione di lasciare un messaggio politico, era quello di inscrivere entrambe le storie nella narrativa patriottica della nazione degli immigrati di Clinton. I migranti che stanno soffrendo ora, sembrava suggerire l’esposizione, alla fine diventeranno parte del grande melting pot, dei cittadini americani come i loro predecessori.
Le singole opere d’arte nella mostra sono state realizzate con l’intento di comunicare chiari messaggi politici, ma il modo in cui sono state esposte li ha spesso attenuati. In “UE / Others” (2000), Šejla Kamerić ricrea i cartelli visti ai checkpoint per il controllo del passaporto negli aeroporti europei. Nell’installazione, commissionata per Manifesta 3 a Lubiana, definita “il confine della Fortezza Europa” dai curatori di Manifesta (la Slovenia non è entrata nell’Unione Europea fino al 2004), dei cartelli sono stati affissi sopra un ponte pedonale, lasciando che i passanti si sentissero oggetti del sistema di immigrazione europeo, costringendoli a considerare se fossero, di fatto, “UE” o “Others” (altro). Al museo Phillips, invece, i cartelli erano appesi in maniera poco evidente nei passaggi tra le gallerie; era difficile discernere quale messaggio trasmettessero, spogliati del loro contesto originale e scaraventati nel cuore dell’impero americano.
Per i migranti attivisti più radicali, uno dei paradossi centrali della politica migratoria militarizzata degli ultimi trent’anni è il modo in cui il movimento di merci e denaro sia diventato sempre più privo di attriti, mentre lo spostamento delle persone sempre più controllato. Ad Harvard, il testo a muro descriveva il ready made “Dos XX” (2015) di Danh Vo come un lavoro sul “muoversi fluidamente tra mercati, i beni di consumo assumono significato oltre le loro origini, raggiungendo identità ibride mentre attraversano i confini nazionali e culturali”. Vo è un rifugiato che usa la foglia d’oro – qui, applicata a una serie di scatole di birra Dos Equis trovate a Città del Messico e ridipinte da artigiani in Thailandia – per interrogare le asimmetrie del capitalismo globale.
Tutte le mostre includevano artisti che, come Vo, usano il movimento degli oggetti come metafora del movimento degli individui. Gli effetti personali dei migranti sono stati ripetutamente considerati simboli della devastazione e del trauma del processo di migrazione. Sia la Phillips Collection che l’ICA hanno esposto “La Mer Morte” (2015) di Kader Attia, un’installazione di abiti usati di seconda mano sparsi sul pavimento; in ciascuna di queste mostre l’installazione ha ricevuto grande importanza in termini di spazio. La maggior parte degli articoli inclusi sono blu, per evocare il Mar Mediterraneo, e rappresentano i corpi dei migranti che sono morti nel tentativo di attraversarlo. All’ICA, alle pareti attorno all’installazione di Attia erano esposte opere su tematiche affini: “Temporary Storage: The Belongings of Juan Manuel Montes” (2017) di Camilo Ontiveros, che mostra gli effetti personali dimenticati di un deportato messicano legati con una corda, e “Artifacts found from California to Texas between 2013 and 2015” (2013-2015) di Richard Misrach, fotografie di oggetti lasciati dai migranti durante l’attraversamento del deserto al confine sud-ovest degli Stati Uniti. Nella stanza accanto era esposta “Exodus II” (2002) di Mona Hatoum, un paio di valigie collegate da ciocche di capelli volte ad evocare i legami che continuano a persistere dopo la migrazione.
Al museo Phillips, i curatori hanno accostato l’installazione di Attia ad una lettera del 2012 di Giusi Nicolini che condanna il sistema migratorio dell’UE, cosa che ha effettivamente trasmesso la violenza dei controlli alle frontiere (la Nicolini era all’epoca il sindaco di Lampedusa, l’isola più meridionale d’Italia e sede di numerosi naufragi con esiti fatali per i migranti). Tuttavia, la mostra dell’ICA, collocò “La Mer Morte” accanto a una casa in poliestere traslucida di Do Ho Suh (ne fu esposta un’altra della stessa serie alla mostra di Harvard). Come quella di Attia anche questa installazione si proponeva su larga scala, ma l’opera di Suh enfatizzava in particolar modo il tema del desiderio e della nostalgia per gli spazi perduti della sua infanzia in Corea del Sud.
Entrambe le opere rappresentano la migrazione come traumatica, ma i loro messaggi sono opposti: l’inevitabile perdita che accompagna una migrazione andata a buon fine è un’esperienza ben diversa dalla sofferenza e dalla morte che possono conseguire ad una non riuscita. Nel presente contesto, quest’ultimo messaggio assume immediatamente un significato politico, diversamente dal primo. Mettere in relazione le due opere, priva il lavoro di Attia della sua incisività e indebolisce la spinta esistenziale di Suh.
Uno dei riferimenti più importanti per queste mostre, in particolare quella dell’ICA, è stato il muro che è progressivamente cresciuto negli ultimi decenni al confine tra Stati Uniti e Messico. Nel progetto pluriennale “Border Cantos” (2004-2016), Misrach e Guillermo Galindo (uno scultore-compositore) hanno collaborato alla creazione di un’installazione che esplora il muro come spazio visivo e materiale. Galindo usa pezzi frastagliati del muro e detriti trovati nelle sue vicinanze per costruire strumenti musicali, esposti come sculture, mentre le fotografie di Misrach sottolineano la presenza austera e ultraterrena del muro nel paesaggio. Ciò che colpisce di questo lavoro è la totale assenza degli esseri umani, che compaiono solo attraverso le loro tracce materiali. All’ICA, tuttavia, gli autori della violenza e le organizzazioni che rappresentano – in particolare due agenzie federali: US Customs and Border Protection (CBP) e US Immigration and Customs Enforcement (ICE) – non si vedevano da nessuna parte. Invece di evidenziare il lato concreto della politica sull’immigrazione, l’effetto di esporre “Border Cantos” fu quello di naturalizzare e spersonalizzare la repressione.
La mostra della Phillips Collection ha portato maggiormente l’attenzione sul ruolo degli uomini armati, esponendo fotografie che mostravano la violenza delle pattuglie di frontiera scattate da John Moore e Mario Tama, assieme al documentario di Chantal Akerman “From the Other Side” (2002), che include interviste agli agenti (anche se le foto sono state collocate in un corridoio laterale, mentre le interviste all’interno di un lungometraggio a cui è poco probabile che i visitatori prestino attenzione). Molto più importanti in questa mostra, tuttavia, sono state le opere incentrate sul mare. L’esposizione al museo Phillips era incentrata non solo sul lavoro di Attia, ma anche sulle fotografie di Wolfgang Tillmans “The State I’m In” (2015), un paesaggio marino, e “Lampedusa” (2008), un’immagine dell’isola omonima. Era presente anche l’opera a forma di nave “Queen Mary II” di Adel Abdessemed, scultura in metallo lunga quasi quattro metri e mezzo e, tra le altre, “La Mère” (2007).
Per il pubblico americano, il mare è molto meno evocativo rispetto alla questione delle frontiere di quanto non lo sia per gli europei. Questi ultimi sono stati recentemente testimoni di alcune vicende riguardanti capitani di navi (come i cittadini tedeschi Pia Klemp, Carola Rackete e Claus-Peter Reisch) che hanno prestato soccorso ad immigrati in osservanza del diritto marittimo per il salvataggio di persone che stanno annegando, ma perseguiti poi per violazione delle politiche anti-migranti dell’UE. Nella cultura americana invece, il mare è legato alla migrazione attraverso una serie di riferimenti storici (come ad esempio la Mayflower) e l’effetto finale diventa la sensazione che l’acqua sia un pericolo naturale, una delle tante difficoltà intrinseche della migrazione.
In questo contesto il film “Vertigo Sea” (2015) di John Akomfrah, installato vicino all’ingresso della Phillips Collection, reinserisce efficacemente le responsabilità umane nella storia della violenza del mare. Il film di 48 minuti è una languida meditazione composta da filmati sia storici che contemporanei, intervallati da citazioni di opere letterarie e inquietanti scenografie che riassumono epoche storiche. Per Akomfrah, i balenieri, gli schiavisti e coloro che lasciano i migranti morire in mare fanno tutti parte di un’eredità coloniale occidentale che legittima l’uso del mare come arma del delitto. La lotta contro la natura può essere un elemento fondamentale dell’esistenza umana, ma la morte di massa dei migranti in mare è un fenomeno creato dall’uomo.
Ciò che rappresenta una minaccia per i migranti non sono solo le politiche dell’odio portate avanti dal presidente Trump o, per l’Italia, dall’ex Ministro degli Interni Matteo Salvini, ma anche quei politici che si proclamano favorevoli all’immigrazione ma che promuovono l’uso delle frontiere come un fatto deplorevole ma inevitabile. Tutte queste figure traggono vantaggio da una visione dell’immigrazione che si lava le mani di fronte al trauma e spesso rifiuta le implicazioni politiche. Il rischio che queste mostre corrono, è quello di riunire una moltitudine di artisti che promuovono messaggi forti, ma che decontestualizzati vengono smussati e privati del loro intento critico.