Il corpo e lo sguardo, l’attore nel cinema della modernità, un libro che indaga l’identità del corpo degli attori, dal neorealismo alla contemporaneità
«Non è importante esprimere una grande emozione. Chiunque può farlo, anche il cane che è in quest’aula»
-Roberto Rossellini
Quella dell’attore è un’identità ambigua: chi interpreta?, sé stesso o qualcun altro? Offre un’imitazione o esprime un sentimento? Il corpo e lo sguardo – L’attore nel cinema della modernità (edito da Marsilio) indaga come è cambiato il rapporto il corpo degli attori e lo sguardo dei registi corso degli anni che hanno portato alla nascita del cinema moderno, dal neorealismo in poi, fino alle porte del post-moderno.
In mano agli autori l’attore si scontra con la visione (inedita, innovativa) dei cineasti della modernità che hanno nuove necessità espressive. Può succedere allora che a un attore sia chiesto di “non recitare”, di diventare un segno come gli altri, un elemento della scenografia: di sottrarre invece che aggiungere.
Il libro propone un’analisi dettagliata e affascinante che Alberto Scandola sviluppa soffermandosi, oltre che sul lavoro (e quindi sulla poetica) di diversi registi particolarmente rappresentativi, anche su alcuni esempi attoriali specifici: Marcello Mastroianni, Catherine Deneuve, Gérard Depardieu e Isabelle Huppert.
Il libro si divide in tre tappe, secondo un criterio cronologico. Il primo capitolo è dedicato a quel movimento che ha cambiato tutte le regole del fare cinema, creando una linea netta, per quanto simbolica, fra prima e dopo: il neorealismo. In questo primo capitolo si indaga sull’identità attoriale dei protagonisti di quello che è stato a tutti gli effetti un nuovo modo di fare cinema: “Quando il cinema della «vicinanza» (Calvino) affianca il cinema della distanza, mettendo in luce l’arretratezza dell’immaginario divistico hollywoodiano, nel circuito mediale entrano «volti segnati dalla sofferenza, corpi smagriti, abiti lisi e consunti»”.
Durante il neorealismo (1943 -1955) accanto agli attori non professionisti, presi dalla strada (e la cui carriera dura il tempo di un film), c’erano divi come Anna Magnani e Massimo Girotti, abilissimi nell’adattare la loro recitazione ai codici del cinema di Rossellini (Roma città aperta, Germania anno zero) e Visconti (Ossessione, La terra trema). Un cinema, quello neorelista, che costruiva il vero attraverso l’elaborazione del falso (della messa in scena).
Ma quella stagione di rottura è da intendersi più come un momento di passaggio, dove il nuovo sembra realmente soppiantare il vecchio è nella teoria (e nella pratica) del cinema di Robert Bresson (Il diario di un curato di campagna, Au hasard Balthazar), da lui prende il via il secondo capitolo del libro. In queste pagine vengono analizzate le questioni più complesse e dibattute negli actor studies: “l’attore nel cinema degli autori ovvero l’attore utilizzato come puro e semplice materiale da modellare, fram-mentare, scolpire a piacimento, importante esattamente come qualunque altro elemento della scenografia”.
«L’attore ideale è la persona che non esprime nulla», così risponde Robert Bresson quando gli chiedevano qual era per lui l’attore ideale. Una dichiarazione che ben riassume il metodo bressoniano. Può sembrare curioso, ma si rivela invero illuminante, il confronto tra Bresson e il coevo Andy Warhol: “Gli stili radicali di Warhol e Bresson – osserva Steven Shaviro – per quanto diversi nell’ispirazione e nello scopo, hanno almeno una cosa in comune: entrambi sono preoccupati di produrre l’effetto di evacuare la soggettività e di sovvertire i canoni di rappresentazione”.
Tra gli altri esempi citati di attori (muse, icone e feticci) che prestano i loro corpi al cinema che in quegli anni si fa modernità troviamo: gli arti di Monica Vitti spezzati e illuminati come gli oggetti nella sequenza iniziale di L’eclisse di Antonioni (1962); gli zoom con cui Bertolucci riprende, frammentandolo; il volto di Adriana Asti in Prima della rivoluzione (1964), gli attori non professionisti di Pasolini doppiati fuori sincrono da doppiatori prefessionisti. E poi ancora Delphine Seyrig, Brigitte Bardot e Claudia Cardinale.
Come ha osservato Alain Bergala “la principale preoccupazione di alcuni dei cineasti della Nouvelle vague è stata quella di trovare le strategie più efficaci per impedire all’attore di interpretare, ovvero di recitare il ruolo di un altro da sé calandosi nella pelle del personaggio: piuttosto che recitare – e pensiamo al Belmondo di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, Jean-Luc Godard, 1960) –, meglio meta-recitare, ovvero imitare tic e movenze di altri attori. Questo partito preso, a dire il vero, si ritrova in molte opere del cosiddetto Nuovo cinema internazionale: la pelle dei personaggi di Chantal Akerman, Jean Eustache, John Cassavetes o Wim Wen- ders, per esempio, è molto sottile e basta poco all’attore per adattarla a quelli che sono i tratti della sua persona, del suo vissuto, del suo sentire”.
Il terzo capitolo è invece dedicato alle figure e al lavoro di quattro attori: Marcello Mastroianni, Catherine Deneuve, Gérard Depardieu e Isabelle Huppert. I primi due nati negli anni d’oro del cinema “moderno”, i secondi alla fine di questa stagione (in apertura verso il post-moderno). Ognuno di loro ha caratterizzato in modo peculiare il paesaggio del cinema europeo dagli ultimi quarant’anni. Spiega l’autore: “da un lato – Deneuve e Mastroianni –, due icone di bellezza mai indebolite dalla duttilità dimostrata nei confronti dei rispettivi directors. Dall’altro – Huppert e Depardieu –, due dir-attori moderni in quanto costantemente inclini alla sperimentazione e disponibili a mettere in gioco il loro dispositivo, entrando e uscendo, se necessario, dai rispettivi personaggi”.
Recitare, nel cinema della modernità, non significa più soltanto imitare gesti e movenze di un personaggio immaginario, ma anche esibire davanti alla cinepresa l’opacità di un corpo che spesso vive la propria vita, e non quella del personaggio. I cineasti analizzati in questo libro – da Rossellini a Cassavetes, da Antonioni a Godard, da Wenders ad Akerman – non rinunciano a raccontare delle storie, ma fanno in modo che queste storie risultino la secrezione dei personaggi, e non il contrario. Gli attori, a loro volta, – è il caso di Delphine Seyrig, Jean-Pierre Léaud, Marcello Mastroianni e molti altri – si offrono allo sguardo della cinepresa come materiali da modellare, portando alla finzione la loro verità e interrogandosi sulla natura ambigua del loro dispositivo.