Rinviata a settembre a causa della pandemia da coronavirus, la retrospettiva di Joar Nango aprirà il 4 alla Kunsthall di Bergen, per chiudere i battenti l’8 novembre. In attesa di vedere opere vecchie e nuove del poliedrico artista-architetto, lo abbiamo intervistato per capire meglio il suo rapporto con entrambe le discipline e avere qualche anteprima sulla mostra.
Lei è attivo sia nel campo dell’arte sia dell’architettura. Dove crede stia il punto d’incontro fra queste due discipline?
Per me i due campi sono profondamente connessi e quando realizzo un’opera artistica o scrivo un pezzo teorico, non faccio differenza. Ho studiato architettura all’università, ma non esercito al professione, tuttavia mi occupo, a livello teorico, del concetto di spazio. La divisione dei due campi inizia con il contesto in cui appare il mio lavoro, cambia a seconda dei soggetti a cui mi rivolgo; se mi trovo presso una scuola o facoltà di architettura o in una mostra sulla disciplina, il mio lavoro è quello di architetto, se mi trovo invece in un’istituzione legata all’arte, allora il mio lavoro è arte. Però, come detto, nella mia mente le mie discipline sono sempre presenti insieme, come fossero un’unica cosa.
Sembra che nell’Europa del Nord, e in Scandinavia in particolare, l’architettura trovi buone condizioni di sviluppo. Pensa che una classe politica più competente abbia favorito questo processo? Cosa può dire in proposito, per sua esperienza?
Non sono sicuro che l’architettura contemporanea sia davvero fiorente in Scandinavia, e non conosco abbastanza le condizioni specifiche per l’architettura in Europa per confrontarle.
Però, so per esperienza diretta che in Norvegia si vive in una società privilegiata in Norvegia, quando si tratta di benessere, economico e sociale; abbiamo un welfare efficiente , così come è alto il grado d’istruzione, e questo probabilmente genera “terreno fertile” per un maggiore apprezzamento di arte e architettura. Tuttavia, avere molti nuovi cantieri aperti non significa che l’architettura sia fiorente. Come ho già fatto intendere, non esercito la professione, ma sono più interessato all’analisi del concetto di spazio sociale, alla sua qualità per permettere alle persone e alle idee d’incontrarsi, piuttosto che a progettare grandi strutture per il mercato. Posso però dire che la Scandinavia è sicuramente brava nel creare edifici costosi.
Secondo lei, qual è la città più dinamica della Norvegia, dal punto di vista dell’architettura contemporanea?
Vivo e lavoro a Tromsø, e mi sembra ci siano condizioni interessanti per lavorare. È una città che ha mantenuto vive molte tradizioni rurali, pur all’interno di un’area ormai appunto urbanizzata; è città universitaria con un’Accademia di Belle Arti e poche industrie, una comunità che non è stata ancora ingoiata dalle ambizioni massificanti delle metropoli in espansione. In altre parole, è una città con cattiva pianificazione e scarso controllo che consente al tessuto urbano di rimanere a un livello di imprevedibilità e improvvisazione. A Tromsø c’è ancora spazio per l’interazione che consente alle persone, compresi designer e architetti, di farne il proprio spazio. Per cui, tecnicamente c’è poca architettura contemporanea, ma ci sono le condizione per lavorare bene e progettarla.
Puoi anticiparci qualcosa della sua prossima mostra a Bergen? Saranno esposti anche alcuni nuovi lavori?
Al momento appunto lavorando a una delle nuove opere per la mostra, una serie TV sull’architettura dopo la caduta del capitalismo. Post-Capitalist ArchitectureTV è composta da tre parti e gli episodi affrontano temi architettonici “della periferia”: materialità ed economia delle risorse, nomadismo e migrazione, decolonizzazione e architettura. Poiché utilizzeremo tutte le sale della Bergen Kunsthall, sto anche lavorando a un’installazione scultorea integrata e ad un elemento architettonico che rende fruibili gli spazi in modi diversi. Questo lavoro sarà totalmente site-specific e realizzato con materiali raccolti attraverso differenti filiere, dai centri di riciclaggio all’ambiente naturale. Parallelamente alla mostra, presentiamo anche una “mini-retrospettiva” del mio collettivo di architettura Fellesskapsprosjektet å FortetteByen (FFB) con oggetti e materiale d’archivio prodotti nell’ultimo decennio. Il collettivo è un progetto che porto avanti insieme a HåvardArnhoff e EysteinTalleraas, ed è stato creato nel 2010. FFB (che significa “ progetto collettivo per una più densa concentrazione della città”) lavora con progetti e installazioni temporanee, ed eventi in spazi pubblici.
Quale messaggio vuole lasciare al pubblico che visita le sue mostre?
Spero di infondere nei visitatori un maggiore senso di consapevolezza sull’ambiente edificato che ci circonda e in cui viviamo, allo scopo di prendere coscienza della sottostante struttura politica che fa in modo che le cose siano come sembrano, e per capire l’impatto che l’architettura ha sulla società. La colonizzazione è una dinamica che ha una parte molto ampia in questo processo; per comprendere la cultura Sami e la realtà coloniale del Nord, dobbiamo guardare all’architettura e capire perché certi edifici sono stati costruiti proprio così, dopo di che provare a innescare una potenziale decolonizzazione.