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Intervista alla curatrice indipendente Irene Angenica, fondatrice di CampoBase

Irene Angenica - Courtesy Irene Angenica, ph.credits Matilde Cassarini
Irene Angenica – Courtesy Irene Angenica, ph.credits Matilde Cassarini

Durante il lockdown abbiamo raggiunto online la curatrice indipendente Irene Angenica (Catania, 1991) per avere una prospettiva sull’impatto che la pandemia ha avuto su chi lavora nell’arte. Irene si è laureata in Arte Contemporanea e in Comunicazione e Didattica dell’Arte presso l’Università e l’Accademia di Belle Arti di Bologna e nel 2019 ha frequentato CAMPO18 – corso per curatori dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Fondatrice di CampoBase, ha svolto diverse collaborazioni tra Bologna, Torino e Barcellona, lavorando per importanti realtà come Artissima, Blueproject Foundation, MACBA – Museu de Arte Contemporani de Barcelona e Accademia di Belle Arti di Bologna.

Ora che tutti comunichiamo da remoto, vorrei sapere dove ti trovi e di cosa ti occupi al momento? L’emergenza sanitaria internazionale ha avuto un impatto sui tuoi spostamenti e progetti di lavoro?

Il Covid-19 ha distrutto tutti i miei piani e programmi per questo 2020, e forse per molto tempo a venire, ma credo sia una condizione comune. Come tanti lavoratori del mondo dell’arte anch’io sono precaria e in quanto curatrice indipendente lavoro principalmente a incarico. Non essendoci stati eventi, e in una prospettiva futura in cui gli spostamenti e i fondi destinati alla cultura saranno probabilmente ridotti, sto facendo i conti con un periodo di blocco pressoché totale in un momento in cui, invece, mi trovavo proprio nel pieno del dinamismo lavorativo e formativo. Vivevo in un costante nomadismo, in primo luogo ho avuto difficoltà a trovare un posto dove potessi sentirmi a casa e fermarmi; per varie vicissitudini mi sono trovata nella mia città natale, Catania, dove non vivevo da più di dieci anni, ma non appena sarà possibile spostarsi tornerò a Bologna, la mia città di residenza. In questi mesi di lockdown mi sono rifiutata di organizzare progetti online, non perché non li ritenessi validi o interessanti, ma perché abbiamo assistito a una certa bulimia di contenuti e mi sono sentita di non avere niente da aggiungere. Piuttosto ho sfruttato questo periodo per mettermi al pari con letture arretrate, per riorganizzare il lavoro con CampoBase e per fare ricerca curatoriale. A proposito di ricerca, molto stimolanti (e divertenti) in questo periodo sono stati gli appuntamenti in videochiamata con Stefano Volpato e Gabriele Tosi, in cui ci trovavamo per guardare portfolio e fare studio-visit (virtuali) con artisti nazionali e internazionali.

The Party Wall – Corinne Mazzoli in collaborazione con Ilaria Salvagno House of Displacement, Torino, 2019. Courtesy Irene Angenica, ph. credits CampoBase

Sei co-fondatrice di Campo Base, collettivo curatoriale itinerante che alla fine dell’anno scorso ha vinto il programma di residenza Encura IV presso Hangar.org di Barcellona. Stavate lavorando a House of Displacement, puoi dirmi di più sul progetto?

Esatto, da gennaio a marzo 2020 mi trovavo a Barcellona presso Hangar.org (e a Madrid presso Planta Alta) come referente di CampoBase per la residenza Encura IV. Si tratta di un bando indetto dal Ministerio de Cultura y Deporte rivolto a curatori internazionali invitati a lavorare con agenti culturali del territorio ospitante. In questi mesi, oltre a un costante lavoro di ricerca e indagine di realtà locali, abbiamo realizzato due eventi aperti al pubblico: una sessione di storytelling (How to fall in love with a Place) e uno Screening (Visions of Displacement). Mancavano solo due settimane alla realizzazione dell’output finale della nostra residenza, il festival House of Displacement Barcelona, che si sarebbe dovuto svolgere dal 27 al 30 marzo in spazi pubblici del quartiere di Poblenou e presso alcune sale del centro di residenza Hangar. Questa crisi ci ha travolto in piena produzione, anche perché in Spagna si è entrati in stato di emergenza diversi giorni dopo rispetto la nostra nazione. Avevamo già stampato il flyer con il programma completo del festival!

Proprio su Forme Uniche hai avviato e gestito la rubrica Project Space, dove si raccolgono le esperienze di vari spazi indipendenti italiani e internazionali. In questo modo hai avuto la possibilità di conoscere molte realtà diverse e tu stessa hai gestito e gestisci degli spazi/progetti (Porto Dell’arte/CampoBase). Come inquadri queste iniziative nel mondo dell’arte? A che esigenze rispondono questi progetti? Che importanza hanno nell’ecosistema del mondo dell’arte e per il pubblico?

Parto dalla precisazione che non so se il termine ‘indipendenti’ sia quello giusto per definire questo tipo di esperienze che sono una costellazione molto variegata di modalità operative artistiche e curatoriali. Io credo che la funzione di queste realtà è proprio quella di fare da catalizzatori, creare gruppi e comunità di artisti, curatori, etc. È difficile fare un discorso generale proprio per la molteplicità di visioni che portano, ma reputo che molti di essi siano fondamentali per lo spazio che offrono alla sperimentazione (sia artistica, sia curatoriale). Inoltre, sono un punto di partenza per gli emergenti e una valvola di libertà e sfogo anche per gli affermati. Poter fare (ed esporre) arte liberi da vincoli commerciali e istituzionali credo sia una necessità fondamentale.

«Il sonno del pensiero sbilenco» [Villa Bellini_Catania 2018] Vanessa Alessi,Courtesy Irene Angenica ph. credits Andrea Di Gangi

Tornando a Campo Base, puoi spiegarmi come è nato? Avete avuto una sede per un anno prima di diventare un collettivo itinerante: quali difficoltà avete incontrato? Come era sostenuto economicamente?

CampoBase è nato in maniera molto spontanea e casuale. Un’amica aveva messo un annuncio per uno spazio situato nel quartiere Aurora, a pochi metri di distanza da altri project da noi molto stimati della città di Torino. Noi ci conoscevamo da meno di un mese ma ci buttammo a capofitto nell’idea di gestire uno spazio. Certo, è stato molto irruento, perché solitamente prima di dare vita a un progetto conosci e scegli bene le persone con cui fondarlo e poi trovi uno spazio. Per noi invece è stato assolutamente il contrario. Ci accomunava solo il corso che stavamo frequentando, Campo18; venivamo tutti da percorsi molto differenti, infatti abbiamo investito buona parte dei primi mesi dello spazio cercando di trovare una metodologia e dei punti di interesse comune. Le difficoltà sono state molte prima di riuscire a costruire una comunità di riferimento. Sulla sostenibilità, è stato tutto autofinanziato (a eccezione del festival realizzato a Ottobre 2019). L’unione ha fatto la forza, essendo un collettivo piuttosto numeroso, soprattutto nella nostra fase iniziale, la distribuzione degli oneri economici ci ha permesso di poter fare questo investimento. Ora stiamo lavorando molto con bandi.

Che rapporto ha Campo Base con la città? Non aver più una sede fissa che tipo di sfide porta? Avete dovuto cambiare, o magari trovare dei compromessi sulle vostre ambizioni e sulla natura del progetto? Diventando itineranti non rischiate di perdere la possibilità di dare un contributo al contesto territoriale locale?

CampoBase vuole essere una sorta di attivatore di comunità temporanee, in questo senso il rapporto con la città che lo ospita è molto significativo. Torino è stata la prima città dove abbiamo avuto sede fissa, per molti di noi era una città di passaggio, un territorio nuovo da esplorare. Anche per questo non ci poniamo mai in una posizione diversa rispetto quella del nostro “pubblico”, cerchiamo sempre di creare un ambiente partecipativo, di dialogo e condivisione, di conoscenze e significati. Diventando itineranti, in realtà non cambia molto il nostro modo di operare, per il futuro, ovunque ci sposteremo, il nostro interesse resterà quello di creare dialogo con agenti e realtà del territorio con lo scopo di continuare a creare e fare parte di comunità.
Il rischio si corre nel momento in cui si abbandona un dato territorio dopo un certo tipo di attivazioni, ma è nostro interesse mantenerle attive. Non avere sede fissa è certamente una difficoltà aggiunta ma resta una sfida molto stimolante per noi e molto coerente alla natura stessa del collettivo che di per sé è già molto “displaced”.

Da poco è stato lanciato Art Workers Italia, gruppo informale che fa ricerca e lavora per determinare e tutelare lo status di ‘lavoratori’ – per lo più precari e freelancers – inerente alle categorie che fanno parte del mondo della cultura in Italia. Come curatrice indipendente, nomade e precaria, come vedi questo tipo di iniziativa?

Fare rete credo sia stata una delle esigenze più forti emerse da questo periodo di crisi e credo davvero che questa esperienza possa cambiare in meglio il sistema dell’arte attuale.

CampoBase, House of Displacement, Barcelona, 2020, Courtesy Irene Angenica, ph. CampoBase

Questo contenuto è stato realizzato da Benedetta D’Ettorre per Forme Uniche.

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