Tu sei considerato tra i pochi superstiti rimasti in circolazione dell’avanguardia punk degli anni ’70, già immischiato nel mondo della musica con una casa di distribuzione di materiale punk e anarchico (UT Comunicazione). Cosa hai voglia di raccontare di quegli anni? Cos’è rimasto?
Per primo vorrei specificare che non sono il solo ancora in attività, ma sono molte le persone che ancora proseguono il loro percorso. Nell’arte plastica e con un universo variegato segnalo Massimo Giacon, Igort Tuveri aka IGORT, Andrea Chiesi, Davide Toffolo, Fabio “Fabius” Titta, Vittore Baroni e sono i primi che mi vengono in mente. Gli anni ’80, sono anni curiosi, dove esisteva una stagnazione culturale palpabile anche a sinistra e non è un caso che sbucarono gli Skiantos per capirci.
Negli anni del punk, dalla fine del 1977 al 1987 avviene una rinascita culturale totale. Dall’architettura alla letteratura, rivoluzionando anche il pensiero politico. Se posso concentrarmi su Milano come centro di raccolta e propulsione lombarda, ti dico subito che la generazione creativa che abitava in città, si conosceva e si frequentava tutta. I produttori di idee a Milano erano tutti interconnessi e interconnessi e ciò significa che uno come me, frequentava Alessandro Mendini ma anche Bruno Munari pur rimanendo legato alle situazioni più ‘alternative’ (a questo proposito basta vedere il catalogo della mostra Reality ’80 del 2019). Il luogo dove ci si incrociava fisicamente quasi tutti era la discoteca PLASTIC, un vero e proprio crocevia di scambio informativo.
Poi ci fu anche un cambio di rotta nelle Radio Libere, con Radio Popolare al centro che irradiava la città, informandola del cambiamento in corso con trasmissioni di musica, di costume e politica con la tematica LGBT al centro. Mentre un aspetto più propriamente punk legato alla storia del punk italiano è la breve storia del Centro Sociale occupato VIRUS, di cui io non facevo parte, ma che sicuramente ha permeato la musica punk italiana più di quanto tutti siano disposti a riconoscere.
In ultimo direi anche che la voglia di raccontarsi e di sperimentare nuove forme di comunicazione che partono dai manufatti (libri, dischi, riviste e piccole pubblicazioni) e arrivano al digitale e portano alla nascita indiretta di ciò che ora possiamo chiamare NO COPYRIGHT. Un utilizzo non casuale di immagini e testi propri e altrui. La sperimentazione nell’usare i nuovi media tecnologici – dalla Fotocopiatrice al Computer – e un uso disorientante dei caratteri tipografici. Per quanto possa sembrare astruso, ritengo che il “punk” nei primi anni ’80 abbia fatto rinascere la consapevolezza nei disegnatori grafici della necessità di DISEGNARE nuovi caratteri tipografici più consoni al ‘nuovo’ che inesorabilmente avanzava in tutte le discipline.
Si può dire che tutto nasce dal punk? Interferenza tra Punk e Street? Come si associa il Punk al writing/graffittismo?
Se ci riferiamo all’Italia (e anche a molte situazioni europee Spagna, Regno Unito, Olanda Svezia, Germania) direi che il Punk o un certo tipo di musica rock deviata ad es. dai Velvet Underground ai Kraftwerk, sia stata la molla che ci ha fatto arrivare alla Street Art. Ma il Writing vero e proprio segue un percorso meno spurio, ma in molte occasioni contaminato con la “cultura” Punk.
Per rispondere velocemente alla tua domanda e mettere in registro questa domanda complessa, ti cito i The CLASH che si alleano a Futura 2000 per fare breccia in USA. Futura 2000 con i Cabaret Voltaire. Poi Africa Bambataa che crea la Zulu Nation (One Love, One Nation) e campiona per primo i Kraftwerk e subito dopo pubblica un singolo con Johnny Rotten e l’uso massiccio di spray e stencils da parte di bands punk come Crass (Station of the Crass), Clash, Cro-Mags e giù giù fino agli Spandau Ballet dove il cantante e il fratello erano due noti taggers!… è un discorso bellissimo ma molto complesso….
“Questa non è una libreria ma è una LIBRERIA SADOMASO” cosa significa quella scritta?
Quella scritta che realizzammo sulle saracinesche della nota “libreria di movimento”, La Ca’ Lusca (la casa losca) era il nostro disappunto, un disappunto punk, nei confronti della clientela della libreria che quando trovava al suo interno Gomma, Valvola oppure me, mostrava il suo malcontento rompendoci le palle per qualsiasi cosa. Se leggevi il manifesto era un giornale di merda, l’Espresso roba da borghesi, Fanzine punk… merda priva di contenuti e via dicendo.
Quindi all’ennesimo sproloquio reagimmo manifestando visivamente la nostra insofferenza verso un pubblico di sinistra che tardava ad accettare la nostra presenza come continuità di un certo pensiero di sinistra. Noi che anni dopo tra il 1986 e il 1987, avremmo ideato DECODER la prima rivista di controcultura legata alla cultura digitale che ebbe un’importanza enorme nel diffondere contenuti altri…
Come hai iniziato ad essere considerato un street artist, ti ricordi i tuoi primi passi, il tuo primo muro?
Io sono accettato come contiguo, tangente e fratellone. Tecnicamente perché sono presente nei primi due libri che si occupano di stencil/graffiti, in particolare uno edito mondialmente.
Poi c’è anche il fatto che sono il primo a scrivere di graffiti intervistando A-One, Sharp, Atomo e Swarz per la Rivista Vinile e in seguito intervistando Blu, Ericailcane, Bo130, Microbo, Stumpo e altri per il settimanale D la Repubblica delle Donne, quando ancora era un fenomeno sconosciuto e tutti loro conosciuti solo da una strettissima cerchia di persone.
Il mio primo muro è del 1975, ma non ho foto (ma spero sempre che vengano alla luce), disegnavo una scatola dalla quale usciva una molla con attaccata in cima una testa che diceva Hello! Le bombolette costavano 3.500 lire l’una e io ero senza saperlo un performer, performavo per strada e sui mezzi pubblici (di cui possiedo foto) e scrivevo poesie a volte anche sui muri. Ho smesso di performare nel 1983.
Dagli anni ’80 in poi ho continuato a fasi alterne a “imbrattare” i muri di diverse nazioni con stencils, poster, piccoli quadri, lettere in 3d e tele cartonate. Nel 1983invece, ho smesso di performare in concomitanza con la creazione della band di Art Punk chiamata The 2+2=5 di cui i primi due dischi sono considerati (non certo da me) tra i fondamentali per lo sviluppo del genere “minimal synth”.
In Italia quando e dove è iniziato il fenomeno?
– La Street Art è iniziata tra Roma e Milano diciamo a cavallo del cambio di secolo e per un caso rarissimo si è consolidata come fenomeno mondiale proprio a Milano nel 2005 con l’Urban Edge Show dove per la prima volta tutte le persone allora coinvolte in questo movimento che ancora non era etichettato con questo nome, sbarcarono in città grazie alla volontà e all’organizzazione di Microbo e Bo130. Tutti gli artisti presenti, molti dei quali oggi famosissimi, erano ancora sconosciuti ai più.
Che rapporto c’è invece tra il Rap e la Street art?
Sono due fratellasti che discendono dalle TAGS e dall’HIP-HOP. Questi due fenomeni sociali figlieranno fino a diventare Rap e Street Art… partendo dal Wild Style e le 4 discipline dell’Hip Hop 1 – DJing: introdotto dai giamaicani. 2- Writing: ovvero l’arte di strada, introdotta dai latinoamericani. 3 – B-boying (o Breakdance): il ballo, sviluppato da afroamericani e latinoamericani del Bronx. 4 – MCing: anche noto come musica rap, introdotto dagli afroamericani.
Come è nata la tua mostra come curatore al Garage in zona Tortona “Dal punk alla street art” del 2012?
Come curatore non è certamente l’ultima, ma sicuramente è stata anche questa un momento fondamentale per la città. Con l’aiuto preziosissimo della The Don Gallery, ho messo insieme 50 artisti di età diverse e apparentemente appartenenti a discipline diverse, dimostrando la giustapposizione e l’interconnesione di tutti. Personalmente il mio apice come curatore e anche come risposta da parte del pubblico. Molte gallerie tradizionali dopo inseriranno nella loro squadra artisti provenienti dalla Street Art non per moda, ma per la qualità espressa. La mostra aveva il titolo di Subterranean Modern – dal Punk alla Street Art e fu nel 2012.
Si parla già di vecchia scuola, come si differenzia dalla nuova?
La vecchia scuola era meno astratta, più illustrativa ma alla ricerca di un caracter (personaggio). La nuova è più astratta e l’ultima è quasi tutta piaciona. Illustrativa, ma nel senso bravo a disegnare e faccio appunto dei bei disegni come quelli delle banche di immagini!
Chi sono i protagonisti di quel tempo?
Li trovi (quasi) tutti scritti nel finale della seconda parte di The Urban Edge Show.
Mi puoi fare qualche nome di artisti rimasti nel settore, che destino hanno avuto?
D-Face, Shepard Fairey, London Police, Swoon, Bo 130, Microbo, Galo, Jeff Soto, Sixe, Pez, Miss Van, Doze Green, Black le Rat, Jr, JonOne, 108, Mode2, Delta, Zedz… sono troppi e sono tutti direi più che conosciuti. Forse in termini di successo monetario, gli italiani sono quelli che se la passano peggio…
Che futuro prevedi per la Street Art? Ci sono nuove generazioni?
Non mi è mai piaciuto come nome. Ho sempre preferito Urban Art o Post Graffiti. Street Art è un termine molto banale che piace alle masse che lo sente vicino e non percepisce nessuna differenza tra un artista e un altro e nemmeno ha voglia di seguirne la storia e le sue evoluzioni. In più questa banalizzazione tiene ancora oggi questo movimento fuori dai Musei anche se in questi ultimi anni alcuni arrivati alla grande notorietà il museo lo raggiungono.
Senza più i Centri Sociali come si esprime oggi un artista?
In Italia i Centri Sociali, sono sempre stati Croce e Delizia. Delizia perché gli artisti sono potuti crescere. Croce perché appena raggiunta una notorietà spesso diventano dei venduti… Infine per rispondere alla tua domanda, direi che con la fine della politica si è smarrita anche la connessione politico culturale che legava il fenomeno ai Centri Sociali. Tu vedi molti muri con un messaggio politico?
Street Art, Sweet Art, del 2007, che mostra fu? Cosa ha lasciato? Perché è un punto di non ritorno?
È stato un caos più commerciale che culturale. Non aveva un riscontro storico né critico, ma solo immediato. È stato trovato un pubblico e un mercato probabile e con quello tutti coloro che avevano armeggiato con uno spray dai primi anni Ottanta in poi, sono tornati sul campo per cibarsi di una torta che purtroppo è finita subito, ma ancora sono tutti o quasi qui nel cercare di arraffare una briciola del potenziale bis…
Com’è cambiato il mercato dell’arte?
Nello stesso modo in cui è cambiata la tecnologia! Veloce e smart!
Distinzioni (ideologiche) tra street art, grafica, fumetti, tattoo, illustrazione ed arte contemporanea? Qual è il confine?
Non c’è nessun confine. Non c’è mai stato tra queste discipline. L’arte esprime una poetica o la trovi e a tuo modo sei unico, oppure sei solo bravo, bravissimo e come tutti sappiamo, un bel disegno vende sempre.
Con poco spazio monetario necessario alla sopravvivenza degli artisti, cosa dovrebbero fare le istituzioni pubbliche, quale piano strategico dovrebbero adottare?
Per prima cosa, essere presente come Istituzione Pubblica. Poi tutto il resto.
Un buon lavoro deve necessariamente avere una tematica sociale?
Non è necessario che un lavoro abbia una tematica sociale, politica, ma almeno che esprima una propria poetica o sia ineccepibile dal punto estetico… oppure che sia portatrice di una linea di pensiero che può anche non trasparire immediatamente, d’acchito per intenderci, ma che disponga di una serie di chiari segnali verso il pensiero che soggiace sotto la tua scelta espressiva.
L’ultimo quesito da porti è legato alla tua dinamica attività di promotore di nuovi artisti, attività molto riconosciuta ed apprezzata. Oltre alla tua produzione artistica personale è forte la tua propensione di curatore di mostre, cosa ti spinge a farlo?
Sono certo che la bellezza è nascosta tra le pieghe delle giovani generazione. Sono molto curioso e negli anni ho notato che nessuno indaga in quale direzione si muove l’arte. Ho ancora il vizio di complimentarmi con l’autore se vedo qualcosa che mi abbaglia e mi stimola. Mi piace tessere relazioni e penso che noi “artisti” con tutte le nostre differenze siamo una comunità, anche se molti questa cosa non la percepiscono…
Nel tempo mi sono trovato a fare il curatore, ruolo da cui cerco di allontanarmi per concentrarmi sul mio lavoro artistico, semplicemente perché sono pochissime le persone interessate realmente a curare una mostra di gente sconosciuta, poco affermata e senza una storia artistica di rilievo nel pregresso. Tutte le volte che a livello mediatico è avvenuto, spesso ci sono solo interessi economici di alcuni singoli “curatori”. Averli non è un male, ma spesso si dimenticano che il punto principale della mostra è l’artista e il suo mondo. Infine mi piace lavorare con persone che credo abbiano talento e che hanno bisogno di essere incanalati verso il “loro” lavoro per farlo risaltare al meglio, prima che si perdano in derive inutile.
Io sono consapevole che i miei giudizi, sono “i miei giudizi ” e possono essere in disaccordo spesso con quelli di altri… ma cerco di essere solo obiettivo (parolona). Non ho pregiudizi. Sono sempre disposto a ricredermi. Può succedere che un artista che non mi coinvolga e che lascia in me molti dubbi sul suo lavoro, sviluppi nel tempo una sua propria “qualità”. Il percorso verso la crescita è totalmente personale e casuale come nel caso eclatante di 2501 uno dei pochi artisti italiani che ha compreso cosa significhi trasportare il lavoro di strada all’interno dello spazio espositivo che sia quello di una galleria che di un museo!
Chi è Giacomo Spazio
Dice di se stesso: “Sono un uomo. Semplicemente un uomo. Il mio stile di vita si riflette totalmente nel mio lavoro artistico. Tutti abbiamo bisogno di poesia e tutti abbiamo bisogno di liberarci di ogni schiavitù!”
È uno dei membri del collettivo d’arte di Milano chiamato: Limited.