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Medioevo dell’ignoranza. Fenomenologia dell’apparenza. La volgarità dei nuovi ricchi, tra arte e belle donne da esibire

L’arte, come le le belle donne, status symbol dei nuovi ricchi. La bellezza senza passione crea ignoranza

Nei tempi rovesciati della finanza e della globalizzazione, anche l’opera d’arte è diventata ostaggio del governo tirannico e oligarchico della moda e del consumismo.

Perchè oggi i collezionisti hanno bisogno soprattutto di consenso e trattano l’oggetto d’arte alla stregua di un souvenir bell’e pronto cui si chiede di essere riconoscibile quanto la Tour Eiffel. In quest’ottica, il quadro è solo l’espressione di uno status symbol che gli altri devono invidiare o sognare di possedere, come una Ferrari o il diamante che esibisci alla prima della Scala.

Non riusciamo ancora a capire dove ci porterà questo svilimento della cultura, il suo asservimento al nuovo medioevo dell’ignoranza e alla fenomenologia dell’apparenza. Però una cosa la stiamo imparando. Che la bellezza senza passione si sfinisce, privata della sua fisicità e del suo spirito è destinata a spegnersi inesorabilmente. E quello a cui stiamo assistendo adesso può essere qualcosa di molto simile.

Un secolo fa i collezionisti avevano il coraggio e la passione di una Peggy Guggenheim o di Gertrude Stein che schierandosi a favore della loro contemporaneità affermavano anche la propria militanza. Ciò che è avvenuto invece negli ultimi anni l’ha già raccontato Marco Meneguzzo, critico d’arte, docente all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, in un suo bellissimo saggio, Il capitale ignorante.

A partire dagli Anni Ottanta i tristi epigoni di quei collezionisti hanno voltato le spalle al valore culturale dell’arte tramutandola in mero status symbol. L’opera d’arte è diventata così un oggetto subalterno, l’orpello finale di un sistema dove l’immagine e l’essenza del tuo stato è tutto il resto, la galleria superpotente, lo yacht attraccato davanti ai Giardini della Biennale, la fiera cui presenziare nelle inaugurazioni riservate ai vip, tutti quei riflessi luccicanti e volgari della filosofia spicciola alla Briatore, secondo cui l’unica cosa che conta è il dio danaro e solo di conseguenza ciò che serve a produrlo.

Soldi senza dubbio ne circolano più di prima, e pure parecchi, perché questo giro ristretto di oligarchi, tycoon e straricchi di varia estrazione e anche di dubbia moralità – tanto pecunia non olet -, è disposto a qualsiasi cifra per accaparrarsi un bene di lusso destinato a pochi, ma conosciuto e ambito da tutti, proprio come una Ferrari. Come lo descrive perfettamente Marco Meneguzzo, questo nuovo collezionista, guidato da conformismo e dotato di ingenti capitali, sceglierà esclusivamente «opere trofeo», con l’unico scopo di testimoniare l’appartenenza non più a una élite di conoscitori, ma al club dei vincenti.

Kelsey Dake

Qual è il ruolo dell’artista in questo contesto? Subalterno, come la sua opera. Per inseguire il successo economico, il solo che conta nel tempio consacrato del dio danaro, dovrà produrre un’arte obbediente, attenta ai diktat del marketing e del gusto globalizzato e massificato, che preferisce premiare a quantità a scapito della qualità.

Per capire come funziona questo universo dell’ignoranza, forse bisognerebbe dare uno sguardo anche a un altro libro, Pricing Beauty: The Making of a Fashion Model scritto da Ashley Mears, sociologa dell’università di Boston, ex modella di un certo successo, e soprattutto a un suo articolo sul New York Times in cui descrive gli ambienti che gravitano attorno alle dive delle sfilate, addentrandosi nei club del jet set internazionale, dove milionari di tutto il mondo spendono decine di migliaia di dollari, a volte anche centinaia di migliaia, per una serata di divertimento.

Ashley ci mostra uomini che spesso gareggiano a chi spende di più, per affermare il loro status, mentre le donne, il cui lavoro non viene retribuito, «costituiscono una sorta di carburante che tiene in moto tutto il circuito, di cui beneficiano i proprietari dei locali e i promoters, i procacciatori di ragazze che vengono lautamente pagati». Mears descrive i club di New York, Miami, Saint Tropez, dove i pezzi grossi, «le balene», sborsano dai centomila dollari in su per sera in una perenne dimostrazione del proprio status. E il ruolo delle modelle è creare l’atmosfera che porta gli uomini a spendere.

Queste fotografie sono perfettamente sovrapponibili alla realtà che gravita attorno al mondo dell’arte, e non solo perché feste e cene simili vengono organizzate con i più importanti collezionisti ai margini dei grandi eventi delle case d’aste. Quello che li accomuna soprattutto è il marchio di identificazione, rappresentato in entrambi i casi dai nuovi ricchi, da quel circolo ristretto di tycoon e oligarchi che formano il capitale ignorante.

 

A man looks at US artist Jeff Koons’ artworks titled “Made in Heaven” during the presentation of the “Jeff Koons: Retrospective” exhibition at the Guggenheim Bilbao Museum, in the northern Spanish Basque city of Bilbao on June 8, 2015. AFP PHOTO/ ANDER GILLENEA
RESTRICTED TO EDITORIAL USE, MANDATORY MENTION OF THE ARTIST UPON PUBLICATION, TO ILLUSTRATE THE EVENT AS SPECIFIED IN THE CAPTION (Photo credit should read ANDER GILLENEA/AFP via Getty Images)

La nuova ricchezza è sempre ignorante, ce lo insegna la Storia. E’ un prezzo da pagare quando cambiano le regole del gioco. Eppure in tutti questi periodi, sopravvivono sempre delle isole da cui si riparte. Ci sono anche adesso piccole gallerie controcorrente che puntano ancora sulla diffusione della cultura e sul valore di una bellezza non mistificata. Bisogna cercarle, saperle riconoscere. Perché saranno loro a conservare il senso di un capolavoro, e la passione per il bello che ci salverà.

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