Binta Diaw è nata a Milano nel 1995. Dopo aver studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e all’École d’art et de design di Grenoble-Valence ha realizzato uno stage presso SAVVY Contemporary, spazio berlinese di arte e ricerca incentrato su visioni ed estetiche non eurocentriche. Donna italo-senegalese, il suo percorso artistico utilizza diversi media per concentrasi sulla creazione di opere che, partendo dal suo essere privato e dal suo vissuto personale, indagano fenomeni sociali e tematiche fondanti la nostra epoca, come la migrazione e l’identità di genere, utilizzando metodologie femministe e intersezionali.
In occasione della mostra In Search of Our Ancestors’ Gardens, realizzata a inizio anno presso la allora sede della Galleria Giampaolo Abbondio, abbiamo avuto la fortuna di conoscere Binta e oggi, dopo le fasi più dure della pandemia, siamo entrati in dialogo con lei.
Cosa significa essere un artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Essere un artista significa essere generosi, significa aprire gli occhi e vedere in senso critico cosa e chi ci circonda, significa prendersi cura di sé e di coloro che si rivedono nel tuo lavoro, significa avere perseveranza nel fare scelte di vita. Per me, ogni occasione che si presenta è un piccolo esordio. Mi piace pensare alle esperienze lavorative come un “momento di rigenerazione”. Oggi, mi sento fortunata e più consapevole delle mie responsabilità in quanto artista.
Non trovo differenze, sono sempre rimasta la stessa di prima, ma le varie esperienze che ho vissuto mi hanno permesso di affrontare tematiche che mi appartengono senza avere la paura o il dubbio di non essere compresa o di esser considerata un cliché. Ecco, ora mi sento libera di raccontarmi e di raccontare la mia community.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
I miei lavori parlano di me, delle mie esperienze quotidiane in quanto donna nera italiana e di ciò che succede attorno a me, precisamente nel contesto sociale, politico e culturale italiano.
Attraverso una metodologia femminista ed intersezionale, cerco di creare situazioni di criticità per de-costruire e interrogarmi su questioni identitarie che vedono in dialogo: italianità e blackness nelle loro complessità.
In programma ci sono vari progetti. Non vi anticipo nulla per aumentare la suspence.
Rimane aperto il rapporto con la Galleria Giampaolo Abbondio che mi sta seguendo in nuovi lavori e nuove collaborazioni.
Come ti rapporti con la città e il contesto culturale in cui vivi?
Milano è dove sono nata e cresciuta. È una città con un grande potenziale, che però ti accoglie se segui il suo ritmo. È facile perdersi com’è anche facile adeguarsi. La ricchezza della città sono le piccole e grandi diaspore che, nella loro sistematica invisibilità, la animano giorno e notte. Il contesto culturale è sicuramente appoggiato da diverse grandi istituzioni storiche che però non rispecchiano completamente la società odierna e le sue realtà viventi. A livello artistico e culturale non vi è un’equità che permette alle forme d’arte non eurocentriche lo spazio che necessitano, per creare spazio critico di dialogo e sharing. Io sono parte di coloro che fa il doppio di fatica per mostrare “chi sono” tramite il mio lavoro. Questa mancanza di apertura e di generosità, nel dare spazio a molteplici forme d’espressione, genera e rafforza un sistema dominato da una produzione per lo più white e da dinamiche che vedono, ad esempio, gli artisti e le artiste afro-discendenti italian* come stereotipi. Per anni mi sono adeguata, ma ora mi faccio accettare per chi sono veramente, e sta funzionando.
Cosa pensi del “sistema dell’arte contemporanea”?
Penso che sia in continua evoluzione in ogni sua declinazione. Mi piace pensare al sistema dell’arte in senso organico. Come dice la parola stessa, sistema è una qualsiasi connessione tra diverse parti che funzionano insieme. Parlando del sistema dell’arte in Italia, è importante per me mantenere questa unione dando spazio a diversità e inclusione.
Come in tutti i sistemi, ci sono degli intoppi. Uno di questi, a mio avviso, è la mancanza di cura e umanità tra le varie persone in contatto lavorativo.
Un altro può essere il persistente gioco di potere, che regola chi è incluso o escluso da un determinato progetto o spazio o addirittura la tendenza a creare spazi o momenti di dialogo su tematiche che non toccano minimamente gli artisti e le artiste chiamat* in causa, provocando false narrazioni e riflessioni poco critiche.
Trovo che sia importante contrastare il disequilibrio di genere che tuttora prevale nell’arte, dando spazio, visibilità e sostegno ad artist* donne e madri, queer e a migrant* di discendenza non europea.
Di quale argomento, oggi, vorresti parlare?
Ultimamente mi sto interessando a diverse questioni.
Durante la quarantena ho riflettuto molto sull’arte contemporanea in Africa, rendendomi conto che, nel corso dei miei ultimi viaggi, ho provato la necessità di piantare alcune radici della mia pratica a Dakar. Trovo di vitale importanza mettersi a confronto con realtà differenti e coglierne i pregi e i difetti per nutrire il proprio lavoro. Parlo di Dakar perché è la città che meglio conosco, ma questo non toglie il fatto che ci siano altri poli artistici e culturali con una quantità infinita di talenti e spazi d’arte all’avanguardia, come: Abidjan, Bamako, Kinshasa, Lagos, Cape Town e altre ancora.
Questo contenuto è stato realizzato da Marco Roberto Marelli per Forme Uniche.
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