Un’esplosione di colori abita i pavimenti e le pareti degli spazi romani del Palazzo delle Esposizioni. Cuori di ogni foggia in olio su tela, altri cuori giganti di paglia, attrezzi da lavoro laccati di lucente vernice, enormi pinocchi in legno, su piedistalli o altalene in ferro, teste che sono psicanalitici autoritratti. Tutto questo è Jim Dine (Cincinnati, 1935) in mostra dall’ 11 febbraio al 26 luglio 2020. L’esposizione, ricchissima e curata da Daniela Lancioni in stretta collaborazione con l’artista, ripercorre le evoluzioni della storia dell’arte e offre lo spaccato artistico delle grandi produzioni di una generazione.
America. Anni ’50 e ’60 del Novecento. Sono gli anni del dopoguerra, caratterizzati dal boom economico. I nuovi oggetti simbolo del benessere diffuso entrano a far parte della vita dell’uomo che non ne può più fare a meno. Si tratta di frigorifero, automobile, tv, lavatrice, cibi in scatola. Proprio da questo contesto sorge la Pop Art, di matrice e origini inglesi ma che attecchisce rapidamente in USA.
Questa nuova forma di espressione artistica si sviluppa nell’ambiente per eccellenza caratterizzato dalla psicologia dello spreco e del consumo, nell’universo del “maxi” e dell’”extra large”. Gli artisti di questo periodo si rivolgono alle grandi metropoli moderne, aggressive, alienanti. Si recuperano le lezioni dei maestri del dadaismo, happening e teatro, e si mescolano alla coloratissima creazione artistica meccanica. Tutto deve esprimere l’angoscia esistenziale della società dei consumi. L’uomo, bombardato da questa realtà fittizia fatta di immagini pubblicitarie e dalla costante presenza dei mass media, cerca di districarsi in questa giungla ansiogena e variopinta fatta di continui input.
In questo contesto opera e lavora Jim Dine (Cincinnati, USA, 1935), artista eclettico, difficile da incasellare, ma che ha militato per molto tempo nella Pop Art, Happening e Performance. Nonostante la sua popolarità, l’artista resta difficilmente catalogabile in virtù soprattutto della sua volontà d’indipendenza e del suo rifiuto a identificarsi nelle categorie della critica, della storia dell’arte e del mercato. Sono esemplari l’autonomia e la libertà con le quali da sempre si rapporta al panorama dei valori accertati. Lo dimostrano le sue vicende biografiche e i suoi lavori tenacemente aderenti alle esperienze vissute, “ineducati” e “inquietanti”, come talvolta sono stati definiti.
Il Palazzo delle Esposizioni presenta uno dei maggiori protagonisti dell’arte americana, il cui lavoro, radicale e innovativo, ha avuto un grande impatto sulla cultura visiva contemporanea, in particolare su quella italiana degli anni Sessanta.
Nell’ampia mostra antologica dedicata a Jim Dine sono esposte oltre 60 opere, datate dal 1959 al 2016, provenienti da collezioni pubbliche e private, europee e americane. Un esaustivo apparato iconografico restituisce la memoria visiva dei celebri happening, raccontati in mostra dalla voce dello stesso Dine, e una selezione di video interviste, permette di familiarizzare con la figura dell’artista.
Un nucleo importante della mostra è costituito dalle opere che Jim Dine ha donato nel 2017 al Musée national d’art moderne – Centre George Pompidou di Parigi e che l’istituzione francese ha reso generosamente disponibili per quest’occasione. Cospicui sono i prestiti delle opere storiche provenienti da collezioni europee, private e pubbliche, tra queste ultime il Museo di Ca’ Pesaro Venezia e il MART, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (entrambi questi musei prestano opere della collezione Sonnabend), il Louisiana Museum of Modern Art a Humlebaek in Danimarca, il Kunstmuseum Liechtenstein a Vaduz.
Una selezione di opere viene dagli Stati Uniti, tra cui i due celebri dipinti degli anni Sessanta A Black Shovel. Number 2 (1962) e Long Island Landscape (1963), appartenenti alle collezioni del Whitney Museum di New York. Dalle collezioni americane arrivano anche Shoe del 1961 e The Studio (Landscape Painting) del 1963, presentati entrambi dall’artista alla Biennale di Venezia del 1964.
Ideatore degli happening, assieme a un ristretto gruppo di amici, Dine è anche e soprattutto poderoso innovatore della pittura che egli coniuga agli oggetti veri, d’uso quotidiano, creando opere nuove e stranianti. L’artista prende le distanze dalla corrente Pop ormai banalizzata dalla cultura di massa, rivendicando il suo personalissimo punto di vista e coniugandolo con una comunicazione rivolta agli altri. Quando nel 1958 Dine incontra Claes Oldenburg (Stoccolma, 1929), diventa suo migliore amico e mentore. Con lui condivide l’interesse per l’Art Brut e le opere di Jean Dubuffet. “[Claes Oldenburg] mi ha mostrato come dare forma al mio nascente desiderio di usare i detriti che trovavo sui marciapiedi. […] la mia adolescenza vissuta in un negozio di ferramenta non poteva avermi preparato abbastanza per parlare con lui. […] È stata questa amicizia che ha permesso nel mio cervello drammatico la deflagrazione necessaria per dare inizio alle performance e alla poesia. Non avrei mai potuto essere me stesso senza Claes”.
“Quando arrivai a New York, Allan Kaprow (padre dell’Happening) mi impressionò molto, mi influenzò. Kaprow sosteneva una visione dell’arte come processo in continuo cambiamento […] sosteneva che l’arte che non era nuova non valeva nulla. Bisognava andare avanti. La pittura era morta. Jackson Pollock aveva ucciso la pittura ballando intorno alla tela e usando pietre e altri elementi estranei nelle sue opere (pezzi di vetro e altre cose che trovava)” (Jim Dine).
Il percorso espositivo è cronologico, volutamente pensato per lasciare a vista sequenze, sorprese e ossessioni che si sono manifestate allo stesso modo nella vita e nelle produzioni dell’artista. I primi lavori esposti (Sala 1) sono autoritratti, piccole teste datate 1959, prodotti quando l’artista era appena ventenne. Il percorso termina con gli autoritratti dell’artista (Sala 6), tema caro a Dine perché carico di significati. Nella prima sala sono anche contenute le testimonianze dei primi happening dell’artista, corredati da fotografie e audio. Proseguendo si trovano i dipinti con capi d’abbigliamento maschili e femminili e utensili. Ancora oltre sono esposti i quadri con gli strumenti riconducibili all’attività di Dine come pittore, assieme alle opere e capolavori con cui l’artista ha sperimentato inedite spazialità, concependoli come se fossero le pareti di una casa. Troviamo qui 5 opere presenti nella celebre edizione del 1964 della Biennale di Venezia.
Intorno alla rotonda si snodano le altre sale: dal diramarsi della ricerca in direzioni diverse e le invenzioni maturate durante i soggiorni londinesi, alle prime opere in cui compare l’iconografia del cuore, assunto da Dine come sorta di suo emblema araldico.
Giungendo al termine dell’esposizione, viene illustrato il rapporto che Dine intrattenne con le culture antiche durante la seconda metà anni ’70. Per concludere, nella sala 8, stanno una folla di Pinocchio (2004-13) ispirati al personaggio di Collodi, incarnazione dell’antica metamorfosi della materia inanimata che prende vita. In questo ambiente, Dine ha volutamente abbattuto le canoniche gerarchie fra autore, opere e destinatari, creando un ambiente immersivo e suggellando l’idea di un soggetto personale e allo stesso tempo collettivo.
Informazioni utili:
Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale, 194 – 00184, Roma
Domenica, martedì, mercoledì e giovedì dalle 10.00 alle 20.00
Venerdì e sabato dalle 10.00 alle 22.30
Lunedì chiuso
L’ingresso è consentito fino a un’ora prima della chiusura ed esclusivamente previa prenotazione obbligatoria gratuita e acquisto del biglietto on line