Museo del Prado e Skira presentano Cuaderno C, l’album che raccoglie 120 disegni inediti di Francisco Goya.
Poter vedere o immaginare i peli del pennello di Goya su un foglio è emozionante. Come lo è aver tra le mani un suo taccuino di disegni. Se anche non si tratta di un originale, perché sarebbe impossibile, un fac simile molto vicino lo possiamo trovare. Si tratta del Quaderno C, conservato nel Dipartimento dei disegni e delle stampe del Museo del Prado, pubblicato da Skira, con tutti i disegni e un testo di José Manuel Matilla Rodríguez (tradotto in cinque lingue). L’occasione, la mostra di disegni di Goya (Goya: dibujos. Museo del Prado, 20 novembre 2019 -16 febbraio 2020).
Goya (Fuendetodos, 1746-Bordeau, 1828), oltre a pitture e incisioni, ha lasciato un gran numero di disegni, quasi cinquecento, raccolti in album. Solo uno, il Quaderno italiano, composto durante il viaggio in Italia nel 1771-1772 è rimasto intatto con la legatura originale. Gli altri, conosciuti in ordine alfabetico o con nomi attribuiti dagli storici, furono smembrati dal figlio Javier dopo la morte dell’artista e venduti separatamente dal nipote Mariano a metà Ottocento. Conseguenza: la loro dispersione in collezioni pubbliche e private europee ed americane.
Si è salvato il Quaderno C, formato in origine da almeno 133 fogli, ridotto a 120 (si conosce la collocazione di cinque dei tredici mancanti). Ma già questi centoventi danno un’idea preziosa del modo di disegnare di Goya: su carta prodotta in Spagna da “Gaudó e hijo”, con inchiostri intensi che spesso trapassano la carta e a velature come vere e proprie pitture, con tinte sempre più cupe nelle scene drammatiche.
Colpisce, sfogliando il quaderno, la libertà di rappresentazione. Goya, già libero per natura, fuori da commissioni ufficiali, è ancora più libero. Ci presenta il mondo spagnolo come lo vede, in quegli anni drammatici,1814-1823, successivi alla guerra di indipendenza contro l’invasione francese. Un mondo derelitto e marginale, malato e stracciato, colto nelle campagne e nelle periferie urbane. Ingiustizie, prevaricazioni, crudeltà sono all’ordine del giorno, riprese con ironia e commentate con frasi caustiche e rivelatrici. Così un uomo malconcio chiede l’elemosina «per mancanza di lavoro». Una donna è accasciata, forse svenuta, tra le braccia di un bambino, mentre un’altra alza le braccia e commenta: «Vede che espressione? Beh, il marito non ci crede» allusione al maschilismo imperante. Una donna cammina sostenendo due otri: «Peccato tu non abbia altro da fare» dice Goya. Un giovane uomo è in catene come un cane: «Chi potrebbe pensarlo?». Una ragazza piange appoggiata ad una roccia su cui è posto un Crocifisso: «Il suo amante è morto e lei entrerà in convento». Sfilano uomini che chiedono elemosina, «cattivi poeti» con cappelli da gendarmi o dittatori, donne che si lavano le parti intime nei ruscelli: «Cosa riesce a fare l’amore!». Persino lavarsi.
Frati, mendicanti, prostitute, mimi, ubriachi, fenomeni da baraccone: «Nella sacca di carne porta il suo patrimonio» dice Goya a proposito di un uomo che oscenamente superdotato o malformato. Un mondo di vizi e perversioni, burlesco, ironico, paradossale, che a volte ricorda Fellini, trattato sempre con garbo e cultura. Un mondo da incubo, dove l’Inquisizione imperversa, insieme alla povertà, alla malattia e alla pazzia. Dove non mancano note di tenerezza verso i bambini e il loro destino deciso troppo presto: «Che idiozia decidere il loro destino nell’infanzia» osserva l’artista disegnando una donna che si tira dietro due riottose bambine.