Paesaggi chimici, monumentali tele di ragno, piramidi di muffa. In pieno Antropocene, le opere d’arti viventi si ispirano alla necessità di abbattere le frontiere tra l’umano e la natura. Il video di Arte in italiano.
C’è una pratica artistica che lavora con i tessuti vivi, i batteri, gli organismi viventi e i processi vitali. Per farlo, si avvale di processi scientifici quali la biotecnologia, l’ingegneria genetica, la clonazione. Non ha un preciso manifesto tematico ma racchiude in sé progetti molto diversi fra loro. Si chiama BioArt, termine coniato nel 1997 dall’artista brasiliano Eduardo Kac, in relazione alla sua opera Time Capsule. Per realizzare la performance, l’artista si è impiantato nella caviglia un microchip utilizzato per il controllo degli animali. Ma già prima si parlava di questa corrente artistica riferendosi alla pratica di Joe Davis, della portoghese Marta de Menezes o degli artisti ospitati da SymbioticA, laboratorio di ricerca presso l’University of Western Australia.
Nell’era geologica dell’Antropocene, in cui l’azione umana domina (e devasta) l’ambiente terrestre, l’idea di creare partendo dagli esseri viventi si ispira alla necessità di abbattere le frontiere tra l’essere umano e la natura. Tra i nomi che spiccano nel panorama contemporaneo figura quello di Tomás Saraceno, noto in particolare per la ricerca di una forma di comunicazione con i ragni e l’indagine dell’aracnomanzia. Oppure, quello del monegasco Michel Blazy, che esplora simbiosi, parassitismo e consumo animale lasciando che siano, ad esempio, le lumache a comporre un quadro su una tela imbevuta di birra. O ancora, il duo parigino Art orienté objet, che dagli anni ’90 indaga l’ecologia e il rapporto con gli animali. Lo ha fatto, ad esempio, nella celebre performance May the Horse Live in Me (2011), in cui Marion Laval-Jeantet si è fatta iniettare nel corpo del sangue di cavallo.
La storia di due artiste che lavorano con il vivente, Špela Petrič e Teresan van Dongen, nella web serie di Arte in italiano Ginnastica culturale.