Tenet, al cinema il nuovo attesissimo film di Christopher Nolan, un puzzle temporale in bilico tra manierismo e autocompiacimento
Cinque parole palindrome (SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS) incastrate tra loro a formare una frase anch’essa perfettamente palindroma: cosa sappiamo del quadrato del Sator? Tante cose, nessuna di queste realmente risolutiva. Le ipotesi sono diverse, le spiegazioni molteplici: un simbolo magico che appare nell’architettura tardo antica e medioevale in tutta Europa (da Cirencester a Modena, da L’Aquila al Cairo; i quadrati più famosi sono quelli di Pompei, dove il figlio della damsel in distress di turno si reca in gita – figlio a lungo citato nel film, ma mai mostrato, forse… Anche qui vale l’assunto di The Prestige: quello che Nolan ci mostra è una distrazione da quello che realmente accade).
Lo possiamo leggere in un senso o nell’altro, da destra a sinistra, in avanti e indietro, il mistero è ancora aperto. Tenet, che dal quadrato magico prende il titolo e le proprie parole chiave, è così: palindromo, costruito a incastri ma pieno di vuoti; buchi nella sceggiatura diranno i più maligni, velleità autoriali diranno altri, forse ancora più maligni.
La critica è già divisa: chi grida al capolavoro che cambierà le regole del cinema e chi lo stronca come supplizzio onanistico. Questi vuoti però rappresentano, forse, la parte più affascinante del progetto, dando aria al didascalismo spiccio con cui sono servite allo spettatore le spiegazioni “tecniche” che regolano il mondo (o, i mondi) in cui l’avventura prende forma.
Tenet è un film misterioso e non manca di un suo fascino, austero e tetro, ma finisce per involvere su sé stesso (sorte ironica per una storia che ruota attorno all’entropia inversa degli oggetti). Nolan ha sempre lavorato su un cinema stratificato, intricato, in una continua sfida col pubblico, ma qui prevale la patina della maniera, restituendo sul finale un giocattolone dal carattere pretestuoso che unisce perfezionismo tecnico e scarsa emotività. L’impressione è quella di un laboratorio, più che di una storia finita, di un continuo work in progress verso altri obiettivi momentaneamente fuori dalla nostra visuale (come – letteralmente – fuori dalla schermo rimangono innumerevoli parti date per fondamentali rispetto allo sviluppo della trama del film: la provenienza della tecnologia inversa e di alcuni personaggi chiave, la collocazione dei mandati dell’attacco al pianeta Terra, etc).
A confermare il talento di Nolan come uno dei più dotati registi dell’Occidente contemporaneo basterebbe il prologo con l’attacco all’Opera di Kiev, una sequenza tesissima, scura e violenta: un esempio di cinema potente e magnetico al suo meglio; con lui Denis Villeneuve (che con Arrival ha messo a segno un capolavoro che gioca anch’esso su una diversa concezione del tempo rispetto a quella lineare) e Michael Mann (Miami Vice, Collateral) a formare il trio di autori più talentuosi, cinici e ambiziosi d’oltreoceano.
Nolan si muove in territori a lui cari – il cinema della fisica quantistica che “scardina” il tempo e lo spazio – ma non nuovi sul grande schermo (da Coherence di James Ward Byrkit a Primer di Shane Carruth, da Donnie Darko di Richard Kelly a Looper di Rian Johnson – e il giù citato Arrival – il cineforum dello spazio-tempo è ben nutrito). E se Dunkirk aveva un aspetto geometrico e glaciale (precisissimo), con Tenet il regista (sceneggiatore e produttore) mischia le carte decidendo di lasciare (per il momento?) l’equazione irrisolta e su tutto regna un fuligginoso alone di disordine. Se un paradosso, in quanto tale, non ha soluzione in aiuto arriva (per aggiungere invece che sottrarre) la possibilità del multiverso (soluzione preferita da tutta quella narrativa contemporanea finita per qualche ragione in cul-de-sac), se una teoria è troppo complessa per essere spiegata si va oltre. Le scene d’azione sono perfette, ma i dialoghi tra un colpo di scena e l’altro sono poveri e stantii, suonano vuoti e sciatti.
Ottimo il lavoro sul cast: John David Washington (The Old Man & the Gun, BlacKkKlansman) è un ottimo eroe buono senza macchia e senza nome; Elizabeth Debicki (Widows – Eredità criminale, Operazione U.N.C.L.E.) perfetta in bilico tra la madonnina infilzata e la “puttana vendicativa” (cit.); Kenneth Branagh impeccabile uber villain che di cognome, non caso, fa Sator: il seminatore, Giove, Dio – colui che decide, crea e distrugge, che in mano ha il destino del mondo. Tra loro brilla Robert Pattinson (con all’attivo una filmografia sempre più coraggiosa e invidiabile: High Lige, The Lighthouse, The Childhood of a Leader), nel ruolo più misterioso e interessante, la spalla dell’eroe, colui che non dovrebbe sapere nulla e invece, come facilmente intuibile, sa tutto.
Tenet è la versione di Nolan della spy-story d’azione (tra 007 e Mission Impossibile): dall’Inghilterra all’India, dalla Russia all’Italia il mondo diventa la scenografia global per sequenze spettacolari con l’obbiettivo di un mondo da salvare (in nostro, quello verrà, quello che è stato). Nolan lancia tante esche e si diverte a portare nel proprio mondo di paradossi e parallelismi lo spettatore, e non manca di intrattenerlo (di sfidarlo, di sfiancarlo), ma al contrario di altre sue pellicole (Inception, The Prestige) non arriva a una compiutezza finale e non trova il giusto equilibro tra blockbuster e autorialità.
Questa sua ultima fatica si configura come un film atelier dove Nolan affastella suggestioni (fanta)scientifice e imbastisce un sontuosissimo nucleo per una saga in potenza. Rotta definitivamente la linearità del tempo prequel e sequel (film speculari e a incastro) potrebbero costituire una vera novità.