Palazzo Albergati di Bologna apre, dopo la pausa forzata dalla pandemia, la mostra Monet e gli Impressionisti. Le 57 opere provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi creano un percorso in grado di distinguersi, per diverse ragioni, da una delle tante mostre sul tema. Dal 29 agosto 2020 al 14 febbraio 2021.
È inevitabile domandarsi, di fronte a una nuova mostra sugli Impressionisti, quale sia la caratteristica unica che la distingua dalle altre. Non è una questione di snobismo, ma di semplice analisi di un fenomeno artistico che occupa un elevato interesse nel cuore degli appassionati da quasi un secolo e mezzo. Dobbiamo quindi attenderci che questo, visto il grande spazio espositivo che ancora gli viene concesso, resista alle esigenze del tempo e risponda con un nuovo spunto all’ennesimo sollecito. Dobbiamo dire che la mostra Monet e gli Impressionisti – visitabile a Palazzo Albergati di Bologna dal 29 agosto 2020 al 14 febbraio 2021 – asseconda questo umano desiderio di novità, proponendo un taglio curatoriale che sollecita uno sguardo nuovo su una poetica a rischio esaurimento.
Tra gli elementi che rendono unica la mostra vi è sicuramente l’univoca provenienza delle opere: il Musée Marmottan Monet di Parigi, che per la prima volta lascia in prestito alcuni suoi grandi dipinti. Il museo si è costruito grazie a due fondamentali donazioni ad opera di due benefattori d’eccezione: quella avvenuta nel 1940 per mano di Victorine Donop de Monchy, il cui ritratto – eseguito da Renoir – è esposto in mostra; e soprattutto la successiva, voluta da Michel Monet, figlio e ultimo discendente di Cluade, che ha nominato il Marmottan erede universale dell’artista, rendendolo il museo con il più altro numero di opere del grande pittore francese. L’esposizione gode dunque di una certa familiarità acquisita tra i dipinti esposti, come se la comune dimora di provenienza richiedesse – e contribuisse a formare – una medesima atmosfera intima, di casa, incline al lento raccogliersi, al dolce meditare. Così le strutture di Palazzo Albergati si restringono, creando sale ad hoc, tante e piccole, come le stanze di un’abitazione. Così troviamo spazi abitati da una sola opera – come accade al paesaggio di Monet che apre il percorso – o poche ragionate accoppiate – come Il Ponte dell’Europa, Stazione Saint Lazare (1887) e Il treno nella neve. La locomotiva (1875).
Alla serena ripetizione tipica dell’ambiente casalingo si contrappone un inaspettato incontro, un ospite gradito ma non atteso. Si tratta di Berthe Morisot – unico vero esponente femminile del movimento impressionista e sposata con Eugene Manet, fratello di Claude – le cui opere rappresentano il nucleo fondante della collezione del Marmottan e per questo meritano un posto di primo piano anche in questa esposizione bolognese. Il medesimo stile tratteggiato, apparentemente sommario, si diffonde in queste particolari impressioni al femminile, forse più inclini al soggetto umano (in mostra, per esempio, Donna con ventaglio) ma altrettanto frutto di un’analisi del dato reale tanto lunga da dimenticarne la verosimiglianza totale, in virtù di una resa dai confini sommari e paradossalmente più veritieri. Da segnalare, ad opera sua, anche un particolare scorcio del Porto di Nizza dove il mare occupa tre quarti della scena e la prospettiva diagonale rende in modo efficace il punto da cui il paesaggio è catturato, ovvero un barca dondolante nel mare agitato.
57 i capolavori portati in mostra. Manet, Degas, Corot, Sisley, Caillebotte, Morisot, Boudin, Pissarro e Signac i grandi nomi che li firmano. Ma come un grande temporale che spiove inevitabile su un lago accogliente, ogni suggestione impressionista termina nel punto in cui è nato, ovvero (idealmente) le superficie specchiate di Monet. L’artista rimane, al netto del tempo e del revisionismo, il padre e principale esponente del movimento. Per questo l’itinerario casalingo su cui la mostra si regge scivola gradualmente, come un pensiero che sfugge, fino alla mente e al cuore dell’ispirazione del capostipite Claude Monet. Ecco allora che il formato dei dipinti esplode e le sale si ritrovano immerse nelle acque del lago che l’artista aveva creato nel suo giardino di Giverny, la sua più grande opera d’arte. Le Ninfee, ovviamente, ma anche il Glicine, le Rose e il ponte giapponese che si stagliava tra loro.
Un loop di superfici lacustri che si diffondono a macchia d’olio e riempiono gli occhi e quasi l’intero piano superiore della mostra. Monet visse metà della sua vita nella dimora di Giverny e a noi, come visitatori, sembra di averne improvvisamente accesso, sperimentando attraverso i suoi dipinti il fascino che la natura, che circondava la casa, esercitava sull’artista. A immergerci nelle superfici riflettenti partecipa anche la musica di Debussy, che si diffonde lentamente dall’ultima sala – e quindi gradualmente si fa più intensa – e scioglie le resistenze di noi visitatori, improvvisamente rapiti dalle care vecchie impressioni impressioniste, oggi inaspettatamente impressionanti.