Se Philippe Daverio potesse giudicare dall’Alto ciò che è stato scritto sulla sua ricca e popolare attività culturale malauguratamente interrotta, riderebbe con la sua gioviale erre italo – alsaziana per alcuni interventi commemorativi. Ovvio quanto gratuito nella provocazione quello di Vittorio Sgarbi sul Foglio, che utilizza l’intervista richiesta e dedicata al collega scomparso per contrapporre la sua eleganza nel vestire a quella funerea del defunto critico d’arte militante Germano Celant – scrittore dal linguaggio criptico, uso a indossare solo giacche di colore nero – e a quella del critico vivente Achille Bonito Oliva.
Le mie occasioni di incontro con Philippe nel corso degli anni sono state numerose e operative nel settore editoriale. Si concludevano, solitamente, con risate finali liberatorie. È lo stesso gioco tra le parti ancora ripetuto fra noi, tre estati orsono, a Palermo, dopo una nostra performance professionale al Teatro Biondo. A mezzanotte, all’uscita dal ristorante, in attesa del taxi che ci avrebbe riportato all’albergo, Philippe si è improvvisato reporter della notte: inaspettatamente mi sono sentito chiedere di essere ripreso in fotografia accanto a un barbone accovacciato su una coperta e protetto da due cani ringhiosi. Divertito, avevo accettato di esibirmi nella seconda performance della giornata. Philippe aveva ritenuto opportuno presentarmi, come fosse un’entrata televisiva: Questo è Paolo Levi, noto critico d’arte. L’anonimo barbone, provvisorio compagno di strada, dai capelli lunghi e grigi, dallo sguardo un poco stupito, non mi aveva degnato nemmeno di uno sguardo. Il mio esimio collega, con il suo fare da impeccabile e colto gentiluomo, non aveva rivelato che lui era, ben più di me, un valentissimo storico dell’arte.
Ma tutto questo che importanza poteva avere per il nostro clochard? In fondo, tutti noi avevamo fatte le nostre scelte esistenziali: l’uomo dei cani, silenzioso nella sua dignità, aveva voluto estraniarsi dal mondo. Io, di questa terra, avevo scelto una tra e tante cose interessanti per le quali vale la pena vivere: l’arte della tradizione; ovvero il rapporto con gli artisti contemporanei emergenti o dilettanti, considerandoli uomini e donne da rispettare, e non oggetti da deridere o trattare con supponenza. Nel corso degli anni mi sono reso conto che è possibile aiutare l’artista a crescere nella diversità rispetto ai suoi modelli storici, portando a sua conoscenza la filigrana o, ancora meglio, l’iniziatico cordone ombelicale tra il sentimento e la materia. E Philippe? In quella occasione, in attesa del taxi nel ludico disincanto di mezzanotte, delineava i confini tra lui e il mondo borghese. Era infatti un libero pensatore in perenne dissidio con la cultura di massa, intellettualmente apolide e curioso, capace di stupirsi, di giocare e di rivelare che il re è nudo, come il bambino della fiaba di Andersen.