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L’epopea della civiltà etrusca in 600 preziosi reperti al Museo Archeologico di Napoli

Etruschi al MANN di Napoli Etruschi al MANN di Napoli
Etruschi al MANN di Napoli
Etruschi al MANN di Napoli

Preziosa, interessante e sorprendente. Seicento reperti presentati al pubblico, di cui duecento, dopo una attenta campagna di studio, documentazione e restauro, sono visibili per la prima volta all’interno della mostra allestita nelle sale del MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dal titolo Gli Etruschi e il MANN, curata dal direttore Paolo Giulierini e da Valentino Nizzo, fino al 31 maggio 2021.

L’esposizione abbraccia un arco temporale di circa sei secoli, dal X al IV sec. a.C., e definisce un percorso di indagine che ricostruisce le fondamenta storiche di questa popolazione, la cui grandezza derivava anche dal controllo delle risorse di due fertilissime pianure, quella padana nel Nord e quella campana nel Sud. Come ricordava nel II secolo a.C., il celebre storico greco Polibio: “Chi vuol conoscere la storia della potenza degli Etruschi non deve riferirsi al territorio che essi possiedono al presente, ma alle pianure da loro controllate”.

Etruschi al MANN di Napoli
Etruschi al MANN di Napoli

Il percorso espositivo si articola in due nuclei tematici: il primo dedicato all’approfondimento della documentazione relativa alla presenza di questo popolo nella regione Campania, dagli albori del I millennio a.C. fino al definitivo declino sancito dalle sconfitte subite presso Cuma tra il VI e il V secolo a.C..L’altra sezione, invece, valorizza i materiali etrusco-italici, generalmente provenienti da aree esterne alla Campania, acquisiti sul mercato collezionistico dal Museo Archeologico in varie fasi della sua storia. Accanto ai capolavori in mostra, volumi, plastici e documenti d’epoca rivelano l’evoluzione del pensiero scientifico in campo archeologico dal Settecento fino alla fine del Novecento, focalizzando l’attenzione sui protagonisti dell’archeologia campana.

Ad accogliere i visitatori sono una serie di manufatti che indicano la coesistenza tra il X e VIII secolo a.C. di pratiche funerarie che distinguono le popolazioni indigene inumatrici, appartenenti alla “cultura delle tombe a fossa”, da quelle che incineravano i loro defunti, che adottavano rituali simili a quelli di matrice protoetrusca/villanoviana documentata nel Lazio, in Toscana e in Emilia. La localizzazione delle principali necropoli con caratteri villanoviani a Capua, Pontecagnano e Sala Consilina conferma la presenza degli Etruschi nella regione, in prossimità delle fertili Valli del Volturno, del Clanis, del Sarno, del Picentino, del Sele e del Tanagro, vie di transito obbligatorie da nord a sud della Penisola e dall’entroterra appenninico verso il Tirreno.

Etruschi al MANN di Napoli
Etruschi al MANN di Napoli

Nel corso dell’VIII secolo a.C., l’installazione dei primi insediamenti stabili dei Greci in Occidente, a Phitecusa (Ischia) e a Cuma, contribuì ad accelerare i processi di crescita economica, differenziazione/competizione sociale e ibridazione etnica, favorendo l’evoluzione dei principali centri etruschi della regione. Un esempio sono le tombe di rango principesco dalle caratteristiche orientalizzanti. Il rituale funebre assimilò e reinterpretò i prototipi degli eroi; un esempio è la Tomba 104 di Artiaco di Cuma, della fine del VIII secolo a.C., in cui il carattere greco del rituale si contamina con i preziosi manufatti etruschi, acquisiti attraverso il circuito del dono aristocratico.

Una delle prime testimonianze etrusche è offerta dalla necropoli di Carinaro, nei pressi di Aversa (Caserta). Si tratta di 32 sepolture inquadrabili tra l’XI e il X secolo a.C., e mostrano notevoli affinità con le coeve sepolture laziali, esemplificata dal corredo della Tomba 12, relativa ad una infante, di 2-3 anni, deposto con il rito dell’incinerazione e un gruppo di oggetti simbolici miniaturizzati.

A poca distanza, ilsito di Gricignano di Aversa ha restituito un piccolo nucleo di 6 sepolture, di cui è visibile la Tomba LXII, anch’essa a incinerazione. Databile tra gli ultimi decenni del IX e i primi del VII secolo a.C., il corredo è impreziosito da un modellino di calesse, simbolo del rango elevato del defunto e del suo transito nell’aldilà.

Etruschi al MANN di Napoli
Etruschi al MANN di Napoli

Nella storia del popolamento etrusco della regione, significativo è il lento processo che portò alla formazione dei primi e veri e propri stanziamenti urbani, a partire da Capua, il grande centro villanoviano sorto a controllo della Pianura Campana. A testimonianza di tale fenomeno sono presenti i corredi funerari della Tomba 1/2005, del primo quarto del IX secolo a.C., una monumentale sepoltura di un capo-guerriero rinvenuta nella necropoli del Nuovo Mattatoio; le Tombe 662 e 664 della necropoli Fornaci, della seconda metà dell’VIII secolo a.C., testimoniano i primi contatti con i Greci, da poco stanziatisi nella vicina Cuma dopo una fase di esplorazione.

Proseguendo con il percorso espositivo si giunge nella sala che accoglie le tombe illustri. Uno dei ritrovamenti più affascinanti della storia dell’archeologia è la Tomba Bernardini. La sepoltura prende il nome dai fratelli Bernardini che ne finanziarono lo scavo nella necropoli della città latina di Praeneste, (l’odierna Palestrina), dove fu rinvenuta nel 1876.Al suo interno venne recuperato uno straordinario corredo appartenente ad un “principe” sepolto intorno al 680-670 a.C., oggi conservato pressoil Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. Incantevoli sono gli ornamenti in oro e argento presenti nelle teche; una produzione etrusca che copriva il petto e le spalle del defunto inumato. La figura del guerriero è evidenziata dalle armi e da un carro da guerra, una biga dal lungo timone. All’interno della tomba sono stati rinvenuti anche numerosi oggetti relativi alle pratiche del banchetto. Sono dei preziosi servizi relativi al consumo rituale della carne e del vino, caratteristico delle classi aristocratiche.

I meravigliosi oggetti del corredo funerario furono realizzati tra la fine dell’VIII secolo e il secondo quarto del VII secolo a.C.;alcuni provenivano dalla Fenicia, dalla Siria e dalla Grecia insulare e orientale. Importati o prodotti in Italia da maestranze itineranti, questi manufatti costituiscono uno degli esempi più significativi dell’Orientalizzante antico nell’Italia centrale.

Balsamario plastico - Secondo quarto del VI sec. a.C. Provenienza sconosciuta (Collezione Santangelo) Napoli, Museo Archeologico Nazionale © Ministero per i Beni e le attività Culturali e per il Turismo Museo Archeologico Nazionale, Napoli
Balsamario plastico – Secondo quarto del VI sec. a.C. Provenienza sconosciuta (Collezione Santangelo) Napoli, Museo Archeologico Nazionale © Ministero per i Beni e le attività Culturali e per il Turismo Museo Archeologico Nazionale, Napoli

Tra le testimonianze più sorprendenti vi è il corredo della Tomba 201 di Calatia, attuale Maddaloni, (Caserta), piccolo centro indigeno sorto a controllo dei valichi appenninici ai margini della Pianura Campana. L’armamentario, di cui è presente una piccola selezione, (la parte restante è esposta nelle precedenti sale dedicate alla protostoria campana), proviene da una monumentale tomba a fossa, destinata a una giovane donna d’alto rango inumata su un tavolato ligneo. La defunta era riccamente vestita e adornata con innumerevoli monili in oro, argento, ambra, pasta vitrea e faience. La testa era probabilmente coperta da un vistoso copricapo, da cui partiva un velo trattenuto da due grandi e preziose fibule.All’estremità del cadavere era deposto il corredo vascolare, che testimonia i vasti traffici commerciali all’interno dei quali erano ben inserite le élite di Calatia. In particolare, la ceramica in impasto documenta i rapporti con il mondo etrusco della vicina Capua, mentre i vasi per il simposio e i banchetti attestano la connessione con il mondo greco dell’area del Golfo di Napoli. All’Etruria vera e propria rinviano, invece, altri oggetti conviviali, come una olla bronzea con pendagli antropomorfi, prodotta probabilmente nel Lazio settentrionale.Gli oggetti di questa tomba non rimandano a quella dimensione domestica che è tipica nel mondo antico per la donna, quanto piuttosto al ruolo avuto dalla defunta e dal suo gruppo familiare nella gestione delle risorse del territorio. A queste alludono gli utensili legati al consumo della carne e i grandi contenitori per la conservazione delle derrate collocati in cima alla fossa, che intendono manifestare la matrice economica alla base del successo locale di questa famiglia.

La Pianura Campana era costellata di piccoli centri indigeni sorti a controllo dei valichi fluviali e appenninici, come nel caso già osservato per Calatia o per Cales, sito nel territorio dell’attuale Calvi Risorta, in provincia di Caserta. Dalla necropoli di quest’ultimo centro proviene il corredo esposto della Tomba 1, rinvenuta nel 1962 nella necropoli della contrada il Migliaro. E’ una grande sepoltura a fossa dell’Orientalizzante recente, 630-600 a.C., contiene un capo-guerriero dell’aristocrazia locale. Un arsenale composto da 95 oggetti: ornamenti in argento, bronzo e ferro, fibule, anelli e armille, rinvenuti insieme alle armi. Il defunto era circondato da un cospicuo apparato vascolare ceramico e metallico, e dagli strumenti connessi con l’uso materiale del vino e della carne.

Allestimento mostra- ph. Giorgio Albano
Allestimento mostra- ph. Giorgio Albano

Cuma e Capua, una greca e l’altra etrusca, nonostante le diverse matrici culturali, hanno una strutturazione similare dello spazio sacro: il “tetto campano”. E’ un tipo di copertura del tempio. Si tratta di un ricco rivestimento in terrecotte policrome elaborato tra il VI e il V secolo a.C.. Nel 524 a.C. Cuma venne attaccata dagli Etruschi, Aristodemo, giovane rampollo dell’aristocraziagreca uccise il capo degli invasori. Paragonato ad Eracle, si diffuse il mito della Gigantomachia nella cultura materiale greca, come attestano i vasi attici di provenienzza cumana e vulcente presenti in mostra.

Nel VII secolo a.C. furono prodotte ceramiche caratteristiche dell’Etruria, nate come trasposizione locale per differenziarsi dai materiali preziosi di origine orientale o greca: ceramica di argilla nera lavorata al tornio nota come “bucchero”. L’archeologo Giovanni Patronistudiò i depositi del MANN e le collezioni del Museo Campano di Capua e scoprì una produzione campana di vasi in bucchero a Capua.

Con l’acquisizione della raccolta borgiana del 1815 da parte del MANN, iniziò un interesse maggiore nei confronti della civiltà etrusca. Tra il Seicento e il Settecento, il cardinale Stefano Borgia (1731-1804) allestì nella sua casa-museo di Velletri una raccolta di reperti archeologici classificati come “egiziani”, “etruschi” e “volsche”. Questa collezione contiene arredi, specchi, monete, armi, fibule, ciste e urne, figure di divinità ed ex voto. Uno dei reperti più importanti è la Cista Bianchini, che prende il nome dall’antiquario che per primo ne curò lo studio. Appartenuta al mercante d’arte Francesco Ficoroni, passò alla famiglia Borgia e infine al Museo Archeologico di Napoli. Trovata nel 1696 nell’Agro Romano, combina materiale autentico antico, le figure di animali, la mascherina di serratura e le lamine della scatola, con una serie di aggiunte false. Egli ingannò gli occhi degli esperti dell’epoca per il materiale legato alla religione antica. L’insieme degli oggetti rimanda a misteriose e inedite simbologie che non trovano riscontri nelle fonti antiche, a partire dalle bizzarre figure nude di uomini e donne atteggiate con strani gesti a pararsi gli orifizi del corpo. Bianchini interpretò questa cista riprendendo il mito di Deucalione e Pirra che narrà del ripopolamento della terra dopo un diluvio simile a quello raccontato nella Bibbia.

L’ultima sala del percorso espositivo offre interessanti spunti di riflessione sulle donazioni, gli acquisti e le collezioni dei repertietruschi. Il decennio del dominio francese nel Regno di Napoli (1805-1815) iniziò con il primo allestimento scientifico del Museo di Napoli ad opera del direttore generale Michele Arditi. Le collezioni acquisite durante il periodo murattiano comprendevano un significativo numero di “buccheri campani”. Si riconoscono oltre 40 esemplari, la metà dei quali è costituita da oinochoai, recipienti per versare il vino, provenienti dal territorio di Capua.

Figura importante fu Raffaele Gargiulo, artista poliedrico versato nella ceramica e nel bronzo. Entrato come resturatore nel Museo di Napoli nel 1808, sviluppò una straordinaria familiarità con il vasellame antico. Talmente abile, che nella sua rete di “traffici”, vendette al Museo una serie di reperti provenienti dall’Etruria, dietro il falso nomedi Giuseppe Aurelio di Gennaro: 21 vasi attici a figure nere e 5 bronzi. Ma l’affare importante risale al 1855, quando Gargiulo cedette all’istituzione museale il suo ricco fondo di magazzino, di cui sono visibili in mostra una selezione di reperti. Mettendo a frutto le sue capacità tecniche sviluppate nel corso di una vita passata con le mani sugli oggetti antichi, non esitò a falsificare e restaurare nascondendo abilmente i suoi interventi, o a creare dei fantastici pastiche. Nella Collezione di Raffaele Gargiulo figurano i coperchi di sarcofagi in terracotta. Gli esemplari appartengono a una caratteristica tipologia di manufatti, prodotti nell’Etruria meridionale in età ellenistica. I quattro coperchi sono stati attrbuiti a due botteghe di artigiani attive nel centro della Tuscania (Viterbo) nel corso del II secolo a.C.. I defunti effigiati sono due donne e due uomini, rappresentati nella tipica posizione recumbente sul letto (kline) secondo modelli standardizzati, replicati attraverso l’impiego di matrici a stampo. Due dei quattro sarcofagi furono acquistati dal collezionista Giampietro Campana nel 1846.

Tra le produzioni ceramiche di notevole fattura vi sono i “vasi di Nola”. Una cospicua collezione fu quella del notabile Pietro Vivenzio che passò al Real Museo Borbonico nel 1818 per 30 mila ducati d’oro. Vasi in impasto e buccheri, databili tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C., e oreficerie dell’Etruria Settentrionale, provenienti da Chiusi e Populonia. La mancanza di un progetto culturale preciso portò alla acquisizione di piccole raccolte di intermediari e antiquari campani, di Genova, Scognamiglio e Venturi.

Tra i siti principali della ceramica etrusca vi è Vulci, nel viterbese. I reperti di questa zona giunsero a Napoli da Roma per essere restaurate, ma è probabile che la vera ragione fosse una abile operazione finanziaria. Fermate dalla Commissione di Antichità e Belle Arti, risultarono appartenere alla ditta Falconnet, “negozianti-banchieri” di origine Svizzera che da Napoli conducevano svariate attività commerciali e finanziarie. Una collezione formata da 78 vasi, ceramica attica a figure nere, e produzioni tardoantiche di ambito etrusco-meridionale e campano. Spiccano due anfore e due kylikes, ossia coppe per il vino.

Regina di queste raccolte private è la Collezione di Marcello Spinelli, un nobile che condusse delle ricerche nei suoi terreni dell’antica Suessula, a nord di Acerra (Napoli). Egli espose la collezione nella “Mostra archeologica campana” del 1879, per poi custodirla gelosamente nel suo casino di caccia. Durante la Seconda Guerra Mondiale la raccolta venne trasferita al Museo di Napoli grazie all’interessamento dell’archeologo Amedeo Maiuri. In esposizione una piccola parte della Collezione, costituita da 2300 vasi e 3000 oggetti in metallo.

Nel 1862 giunge a Napoli, esule da Parigi, il mazziniano Alessandro Castellani, esponente di una famiglia di antiquari e orafi. Egli mise in piedi una delle maggiori gallerie antiquarie nella città partenopea. Sfruttando il porto marittimo, trasformòNapoli in un network che attinse alle ricchezze dei principali siti archeologici del Lazio e dell’Etruria. In esposizione sono visibili 8 tegole sepolcrali provenienti da Chiusi e contraddistinte da iscrizioni funerarie.

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