Difficile, se non impossibile, inquadrarne volto e personalità, nonostante sia lei stessa l’unico soggetto delle proprie fotografie. Dalle prime serie analogiche al digitale più kitsch e photoshoppato, tra specchi e colori pop, Cindy Sherman – Una retrospettiva 1975-2020 ripercorre la (quasi) cinquantennale carriera della regina della metamorfosi. Alla Fondation Louis Vuitton di Parigi fino al 3 gennaio 2021.
Dall’inizio della sua carriera, negli anni ’70, Cindy Sherman (Glen Ridge, Stati Uniti, 1954) ha instaurato un dialogo inesauribile con il mondo del cinema, della moda, dei magazines. Le sue opere, che definisce autoritratti unicamente in senso tecnico, ci interrogano sul modo in cui l’arte e la cultura pop condizionano e definiscono la nostra identità. Benché non si sia mai dichiarata femminista, il suo lavoro punta spesso il dito sui cliché che la società contemporanea associa alla donna, in cui la messinscena dello stereotipo è funzionale all’eliminazione dello stesso. Nulla è lasciato al caso, l’artificio è dichiarato (se non ostentato), la cura per i dettagli è maniacale.
Cindy Sherman è l’unico soggetto delle proprie fotografie, eppure definirla è quasi impossibile: camaleontica, è in grado di trasformarsi non solo per mezzo di trucco e parrucco ma con lievi e determinanti cambi di espressione. Le sue fotografie ci portano a riscoprirla di volta in volta: la riconosciamo, eppure non la conosciamo mai veramente. Per posare uno sguardo quanto più esteso e completo sull’opera dell’artista americana, va in scena alla Fondation Louis Vuitton di Parigi la mostra Cindy Sherman – Una retrospettiva 1975-2020: la prima esposizione in Francia dedicata all’artista dopo quella del 2006 al Jeu de Paume, nonché la più grande retrospettiva europea dell’ultimo decennio.
Oltre 300 fotografie, che spaziano dai formati più grandi ai più ridotti, accompagnano il visitatore attraverso le molteplici sperimentazioni dell’artista: dalle prime prove datate anni ’70 ai progetti più recenti, compresa una serie contemporanea inedita. Attraverso un allestimento concepito côte à côte con la fotografa, il percorso si propone come uno sconfinato vagabondaggio attraverso il tema dell’identità: Cindy Sherman ci invita a trasformarci insieme a lei, a scomporci e ricomporci in modo sempre nuovo, a cercare una nostra individualità senza piegarci a quella che la società sembra imporci.
Lo spazio, governato da quinte irregolari, si coordina alla fluidità dell’artista: prima azzurre, le quinte si fanno rosse e poi grigie, con una breve parentesi gialla. Colori che attraggono e confondono sono intervallati da specchi larghi e stretti che non lasciano scampo, costringendoci a fare presto i conti con la nostra stessa immagine: qual è la corrispondenza tra ciò che siamo e il modo in cui appariamo? Ogni fotografia è untitled proprio perché non è possibile etichettare un essere umano, dare un nome a una personalità sempre sfumata e in costante movimento.
22 le sezioni, e le serie, in cui si suddivide il percorso. Cindy Sherman, infatti, lavora (quasi) unicamente per serie: sceglie un argomento e lo esplora nelle sue molteplici sfaccettature. Seguendo un ordine cronologico che si concede alcuni salti temporali, la mostra si apre con gli Untitled Film Stills (1977-1980), ipotetici frame di film facilmente riconducibili ad alcuni canoni cinematografici in cui l’artista mette in scena se stessa nei panni di una protagonista. Da sola copre tutti gli altri ruoli: regista, costumista, tecnico delle luci, eccetera. Seguono le fotografie che richiamano il green screen tanto amato da Hitchcock, ma in cui l’effetto è creato tramite l’uso di semplici diapositive, eppure di forte (se non migliore) impatto.
Si passa poi per la serie Pink Robes & Color Studies dei primi anni ’80: l’artista si mostra al naturale, cipiglio e sguardo frontale. In una delle fotografie, quella che la ritrae avvolta in un accappatoio rosso, molti hanno creduto di vedere rivelarsi la vera Cindy. Eppure, anche questa naturalezza è frutto di un attento artificio. Nelle fotografie che seguono, l’artista sembra più concentrata sulla forma che sulla sostanza, portando avanti un meticoloso studio sulla luce e sul colore.
E ancora, negli History Portraits l’artista si rifà alla tradizione pittorica occidentale facendo propri temi, scuole e linguaggi dei grandi maestri, pioniera di una moda lanciata dal Getty che ha spopolato anche durante il lockdown: rendendo sempre palese l’artificio, l’artista crea una parodia degli stili e dei codici della rappresentazione per dar luogo ai suoi propri ritratti. A metà percorso, la fotografa si eclissa dalle immagini per posare lo sguardo su contorte nature morte che mescolano maschile e femminile attraverso dei frammenti di manichini, componendo una sessualità esplicita e disumana che sfiora il grottesco: una reazione ai tempi d’oro di un’America puritana in piena crisi da AIDS.
C’è poi la Cindy Sherman che si consacra definitivamente al digitale: nei suoi Society Portraits (2008), comparsi dopo un ritiro di quattro anni, la fotografa prende consapevolezza del proprio corpo che invecchia e decide di impiegare le proprie rughe per raccontare qualcos’altro, mettendo in scena una serie di donne decadenti avvolte in un universo di lusso e nobiltà. Tra i macro-temi ricorrenti, le collaborazioni con il mondo della moda, celebrazione massima dell’apparenza. Negli anni ’80, l’artista indossa Jean Paul Gaultier impersonando modelli aggressivi o assenti, mentre è più recente l’obbedienza a un nuovo regime iconografico che strizza l’occhio al mondo dei social e dei fashion influencer.
A segnare uno dei punti più alti dell’opera di Cindy Sherman nella sua dimensione più carnevalesca sono invece i Clowns (2003-2004): è l’inizio dell’utilizzo di Photoshop, che l’artista impiega per ritoccare gli sfondi (mentre i soggetti sono ancora ritratti in analogico). I suoi clown androgini, nati a seguito di una riflessione sugli attacchi terroristici del 2001, si fanno icona di un’enigmatica tristezza malcelata da un’artefatta allegria. A concludere il percorso è la serie inedita Men (2019-2020), che la fotografa consacra interamente, per la prima volta, al cambio di genere. Setacciando la collezione maschile di Stella McCartney, si trasforma in uomini marcatamente androgini che si stagliano su paesaggi kitsch ritoccati, talvolta accompagnati dal proprio corrispettivo femminile: è l’ennesima provocazione di un’artista capace di valicare le frontiere tra i generi in nome di una libertà totale, svincolata dai dettami sociali e culturali. Cindy Sherman ci guarda dritto negli occhi per chiederci, ancora una volta, cosa siamo, chi siamo, ma soprattutto: dobbiamo necessariamente essere “qualcuno”?
Informazioni
Fino al 3 gennaio 2021
Fondation Louis Vuitton, 8, Avenue du Mahatma Gandhi Bois de Boulogne, Paris
Lunedì, mercoledì e giovedì 11-20; sabato e domenica 10-20; venerdì 11-18,30
* Cindy Sherman Untitled #92, 1981 Épreuve couleur chromogène 61 x 121.9 cm Collection Cynthia et Abe Steinberger. Courtesy de l’artiste et Metro Pictures, New York © 2020 Cindy Sherman