Al Museo d’arte di Mendrisio in corso una retrospettiva su André Derain (27 settembre 2020 – 31 gennaio 2021), una delle colonne portanti dell’arte del ‘900. Un percorso alla scoperta delle contraddizioni e dei punti fermi che hanno guidato l’opera di un artista diventato icona delle generazioni successive.
Avanguardie e classicismo si alternano sulle pareti del Museo di Mendrisio così come si sono fuse nel pennello di André Derain, che di questa dualità ha fatto il suo cavallo di battaglia.
Nato a Chatou nel 1880, viene presto a contatto con l’ambiente parigino di Picasso, Braque, Matisse, in cui l’eco di Cézanne riecheggiava ancora con la forza della sua novità. È in questo quadro che Derain muove i suoi primi passi, prendendo l’eredità dell’impressionismo e reinterpretandola fino a gettare le basi di fauvismo e cubismo.
Compagno di Matisse a Colliour, nel sud della Francia, dove i due dipingevano quei paesaggi marini fatti di colori accesi e pennellate dense che sarebbero poi stati alla base del movimento Fauves, e di Picasso a Parigi, dove fece conoscere l’arte africana all’amico spagnolo. Al fianco di Braque quando questo iniziò a dar vita al mondo cubista. Maestro di Giacometti, Balthus, Duchamp. André Derain fu una figura unica, fuori dal comune, in cui l’amore per il lusso e la bella vita convissero sempre con un’irriducibile malinconia che negli anni lo portò a un isolamento sempre più profondo.
L’elemento più interessante dell’opera di Derain è forse la sua netta divisione in due parti. La carica avanguardista da una parte e un deciso ritorno a un ordine classico dall’altra. Se la prima fase della sua carriera si caratterizza come una totale sperimentazione -di mezzi, di tecniche- sull’onda della diffusa volontà di rinnovamento, l’esperienza bellica segna un momento di stacco insanabile nella sua attività. Gli anni ’30 danno il via a una sorta di ritorno all’ordine formale che è espressione di un bisogno interiore. I suoi modelli sono i greci e i romani, i grandi pittori del ‘600 e dell’800, da cui trae spunto senza però ricadere in un citazionismo pedissequo.
Se a inizio ‘900 erano i colori accesi e le linee nette a prevalere, in questa seconda fase la sua attenzione si concentra sulla composizione. Le forme arcaiche sono impossibili da ricreare così come sono, servono piuttosto a guardare le cose con rinnovata intelligenza. Viene meno la differenza tra un kuros greco e l’arte di Cézanne, entrambi espressioni di una propria modernità.
Questa nuova poetica gli vale però le critiche di quelli che erano stati i suoi compagni avanguardisti, tanto che Breton lo accusa di aver abbandonato la sua vena creativa a favore di una nostalgica rievocazione del passato.
Ad apprezzarlo è invece Giacometti, che ama il modo con cui Derain riesce a confrontarsi con l’antico, cosa che fa di lui il pittore che più appassiona l’artista svizzero. Anche in Italia sono diversi gli artisti che subiscono il fascino del francese. La sua stagione “bizantina” non fa altro che anticipare ciò che faranno poi De Chirico, Carrà, Gino Serverini e Ardengo Soffici.
Nonostante questa duplicità, punto fermo della produzione di Derain resta sempre la figurazione, che sceglie di perseguire nonostante una filosofia personale fortemente anti-naturalistica, nata dalla convinzione che sia impossibile conoscere la realtà. La sua raffigurazione oggettiva è soltanto un modo per arrivare a cogliere il segreto che sta sotto la superficie.
Nonostante il suo ruolo, André Derain non ha avuto la stessa fortuna critica di amici come Picasso, Braque e Matisse. La mancata celebrazione postuma ha iniziato a sanarsi tardi, grazie a una rilettura postmoderna che prescindesse da un giudizio basato sul netto succedersi di nuove tendenze. In quest’ottica si pone anche la mostra di Mendrisio, che esplora la poliedrica carriera dell’artista a 360 gradi.
A dispetto della netta partizione che abbiamo visto caratterizzare la pittura di Derain, il percorso segue un andamento tematico al posto che cronologico, andando a toccare i soggetti cari al pittore e dipinti a più riprese. I paesaggi in cui è ancora vivo l’eco di Cezanne si alternano a boschi rossi e viola frutto della cultura selvaggia dei fauves; disegni di donne le cui forme rimandano all’arte africana e precedono gli sviluppi cubisti stanno a fianco a ritratti femminili in cui riecheggiano le pennellate di Tiziano. E così via per nature morte, scene mitologiche e nudi.
Ad affiancare le tele, ci sono poi ceramiche, sculture, fotografie e bozzetti per il teatro. Nessuno, nel ‘900, si è dedicato al mondo dello spettacolo al pari di Derain, che non si limitava a disegnare i costumi per balletti e opere liriche, ma dava indicazioni anche sul trucco e sulla scenografia.
Interessanti anche le fotografie, in cui si vede emergere una vena surrealista che si esplica in un costante fuori fuoco, mezzo con cui indagare il tema della percezione.
Informazioni utili
André Derain. Sperimentatore controcorrente
27 settembre 2020 – 31 gennaio 2021
Museo d’Arte Mendrisio