10 A.M. ART di Milano presenta La pittura come sublime luminosità. 1970-1979. La mostra approfondisce l’utilizzo unico del colore da parte dell’artista, capace di rappresentare la luce per quello che è, senza mediazioni strutturali a sorreggerla. Dall’8 ottobre al 29 gennaio 2021.
Cosa ci emoziona in un’opera d’arte? Con sincero spirito antiretorico, sembra inevitabile rispondere: quel che si vede. Del resto il risultato finale è importante, se non fondamentale, per veicolare il messaggio visivo che l’autore del lavoro ha immaginato. La storia dell’arte, soprattutto quella moderna e contemporanea, ci ha però insegnato che il virtuosismo non è sempre tecnico e che il valore dell’opera può divincolarsi dal bello classico. Per esempio il suo contenuto può condensarsi nel procedimento mentale che l’ha generata – come accade per esempio con l’arte concettuale – e far passare così in secondo piano la sua realizzazione pratica. Qui sarà l’aspetto più cerebrale a condurci al piacere. Inoltre, legato al concetto ma dalle sfumature differenti, c’è un altro particolare godimento artistico che necessità di uno sforzo ulteriore: il gusto del processo.
Prendiamo in considerazione, per definire la questione, l’opera di Vincenzo Satta, di fresca esposizione – dall’8 ottobre al 4 dicembre 2020 – alla galleria 10 A.M. ART di Milano. Qui i suoi dipinti emergono delicati dalle pareti bianche dello spazio, compaiono come lenti e pittorici germogli, fragranze che muovono leggere nell’aria impreparata a conoscerli. Perché essi sono principalmente esperimenti luminosi, che dalla natura attingono ma che da essa mai sarebbero generabili. Come un miraggio non si può raccontare, così le sue opere sono da apprezzare dal vivo, li dove si manifesta il loro particolareggiato spirito cromatico.
Qui ne apprezziamo il valore più immediatamente visivo. Concatenazioni astratte di forme e colori, di geometria e luce. Quel che inonda l’occhio sono i cerchi, i quadrati, i rettangoli, le linee: grammatica essenziale di un alfabeto puro e intraducibile se non nella lingua della struttura, del mondo in costruzione. Su questa impalcatura di segni sembra comparire dal nulla la pittura, come fosse un suono che non necessita di un supporto visibile per esistere. Così la sua arte diventa pura vibrazione luminosa, incline a mutare a seconda delle condizioni in cui viene osservata. Distanza e luce sono le due variabili che frammentano i suoi dipinti in complesse combinazioni di razionalità e inganno, pensiero ed emozione.
Come inevitabilmente deve essere, nonostante a volte lo dimentichiamo, tale risultato è frutto di una precisa e antistante riflessione. Le opere in mostra, non a caso, appartengono tutte agli anni ’70. In questo periodo Satta abbandona definitivamente le suggestioni naturalistiche per abbandonarsi alla pura astrazione. Il mondo diventa così un immenso complesso di rapporti formali e cromatici, che ripetendosi all’infinito e in varie combinazioni ne definiscono l’aspetto. A tale concessione visiva si accompagna un intreccio simbolico di significati, che associano il quadrato al connubio colore-luce, il cerchio all’espansione dello spazio, il rettangolo al concetto di soglia e la linea ai tessuti labirintici del senso. Anche le maggiori esposizioni a cui ha preso parte nel periodo in questione – Nuova Pittura (1972-1976), Un futuro possibile. Nuova pittura (1973), Pittura museo città (1975) – testimoniano la volontà di Satta di superare una concezione tradizionale di pittura.
E infine, dunque, si giunge al processo. Il metodo pratico, perlopiù invisibile a un’osservazione superficiale, si caratterizza per una lenta e inesauribile sovrapposizione di strati cromatici. Questo complesso sedimentarsi genera numerose conseguenze. Dapprima confonde i colori, creando soluzioni irrealistiche, nonostante questi risultino infine precisamente e uniformemente distribuiti. Perciò una distesa di azzurro potrebbe celare al suo interno una sterminata rivisitazione luminosa, divenendo muto gonfaloniere di mutazioni sepolte. Questo metodico procedere restituisce inoltre l’impalpabile dimensione della luce, eliminando qualsiasi traccia della struttura che la supporta. Nessuna linea, nessuna pennellata: niente se non la geometria, sublime suggeritrice. In tal senso essa è una vera e propria scelta di metodo, è un supporto utile ad esaltare la luce per poi scomparire. Così facendo la pittura di Satta non viene dipinta, semplicemente accade. Si manifesta, appare dal nulla, esiste senza il bisogno di vivere.
La qualità del colore è mente e braccio dell’opera, processo e risultato dell’arte inafferrabile di Vincenzo Satta.