«Solo in teatro» è un progetto di resistenza. Il desiderio viscerale di un artista di rientrare in teatro, la volontà di portare lo spettacolo dal pubblico nel difficile periodo del lockdown. Una luce nel buio per un settore ferito e piegato, e ora di nuovo costretto a calare il sipario a causa del nuovo dpcm del premier Giuseppe Conte
«Solo in teatro» nasce da un’idea della regista e coreografa Caterina Mochi Sismondi, sostenuta dalla Fondazione Cirko Vertigo di Paolo Stratta, e messa in scena nel «loro» Café Müller di Torino. Che diventa, di fatto, uno dei pochi (se non il solo) teatri in Italia a rimanere «aperto» in questo nuovo periodo di stretta.
Per ognuno dei 25 artisti internazionali della particolare stagione 2020-1 viene organizzata una residenza di sei giorni durante i quali, con la collaborazione del fotografo Andrea Macchia e degli operatori video Stefano Rogliatti e Fabio Melotti, viene raccontato il loro percorso artistico: un docufilm formato dalle riprese del dietro le quinte e da interviste, dove il Café diventa una sorta di set cinematografico, uno spazio di produzione vero e proprio per dare vita a una monografia.
Poi, lo spettacolo vero e proprio, una creazione di una trentina di minuti «in solitaria», che nella cosiddetta «fase 2» ha avuto anche un pubblico in presenza. Entrambe le parti del progetto, però, vengono trasmesse in streaming e rimangono fruibili on demand. E così le persone possono godere della performance anche a teatri chiusi.
Caterina, come è nata l’idea?
«Eravamo in pieno lockdown. Dopo tutto un periodo occupato a fare le classiche cose in casa, ho avuto una specie di illuminazione, e ho semplicemente pensato: “Cosa mi manca di più”? “Il teatro”. Non solo come coreografa e regista nella mia compagnia, blucinQue, ma anche come spettatrice».
Qual è stato il secondo pensiero?
«Con la stessa calma mi sono chiesta, “Che cos’è che hai la fortuna di avere”?»
Cosa?
«Un teatro, il Café Müller! E non è affatto scontato. Questo è stato un insegnamento di quel periodo: smettere di dare per acquisite e banali delle grandissime fortune. E il terzo pensiero è stato “L’unica cosa che vorrei fare ora è tornare in teatro, non voglio più stare a casa, non voglio più che gli artisti stiano fuori dal palcoscenico”. Da qui è nato anche il nome».
“Solo in teatro”…
«Esatto, una formula nata più che altro dall’emotività: la mancanza, la solitudine e la carenza. E una scelta basata su quanto ci era possibile fare in quel momento: se non potevamo riempire il teatro con il pubblico, potevamo almeno far tornare gli artisti a lavorare lì».
Come funziona?
«Visto che le compagnie non si potevano ospitare, il fulcro è diventato l’artista, che ospitiamo qualche giorno in modo che lui possa fare tutte le prove (e girare il docufilm) insieme ai nostri tecnici. Sul palco è “solo”, ma dietro le quinte no, c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarlo, la mia squadra con luci, scenografia, allestimento: tutto quello che può essere utile produrre, che a casa non c’è».
Quali sono gli obiettivi del progetto?
«Innanzitutto, rientrare in teatro. Ma anche riempire un gap presente anche prima dell’emergenza, quello della produzione: gli artisti spesso non hanno tempo di allestire e provare uno spettacolo con calma prima di metterlo in scena, ma soprattutto non hanno il tempo di produrlo, perché sono costi. Insomma, da un bisogno viscerale ne sono nati enormi possibilità. E poi è arrivata l’idea dello streaming».
Eravate pronti?
«Assolutamente no, abbiamo dovuto studiare un sacco, e mai pensavamo funzionasse. Non avevamo nemmeno le attrezzature. Ma volevamo che il teatro non morisse, e abbiamo superato qualsiasi blocco mentale».
Quindi, come funziona uno spettacolo?
«Il nostro teatro è suddiviso tra una galleria chiusa sopra, che ha uno schermo da cinema, e la platea. Nel periodo in cui eravamo tornati dal vivo, il pubblico entrava, si recava nella “sala cinema” e guardava il docufilm del dietro le quinte; contemporaneamente, lo stesso video lo vedevano anche le persone da casa. Poi chi era in teatro scendeva a vedere la performance, che veniva trasmessa anche online. Insomma, pubblico dal vivo e a casa erano connessi, vivevano la stessa esperienza anche se in modi diversi».
Come sono andati i primi spettacoli?
«Molto bene, e le settimane di residenza molto intense. Ma è tutto un work in progress, più andiamo avanti più capiamo il ritmo e lo stile utile per lo streaming, per rendere l’esperienza sempre più immersiva. E quando finirà questo bruttissimo periodo, e le compagnie torneranno, vorrei comunque mantenere Solo in teatro come un insert di stagione, un appuntamento mensile».
Per collegare al teatro chi non può andarci?
«Proprio così. Se tu in quel momento, per qualsiasi motivo, dalla distanza ai problemi di salute, non puoi recarti a teatro ma hai il desiderio di vedere lo spettacolo, questo progetto te lo permette. E in più riesci a vedere il dietro le quinte. Il nostro fotografo Andrea Macchia ha inserito nella fine dei video un mix di foto di backstage della settimana, in cui il performer è insieme ai collaboratori: lì c’è l’immagine plastica di come funziona il progetto, sei solo, ma non sei mai abbandonato».
Prossimo spettacolo?
«”Una relazione per l’accademia” di Franz Kafka con Paolo Oricco, attore della Marcido Marcidorjs, il 31 ottobre. Uno degli aspetti più interessanti è proprio che si tratta forse della prima volta in cui l’artista si stacca dalla propria compagnia e si mette in gioco da solo. Questo progetto ti costringe a tirare fuori le risorse personali che magari non pensavi di avere, o che avevi paura a far emergere».
E i prossimi passi?
«I docufilm dovrebbero diventare un cortometraggio».